A Human Position (Norvegia, 2022). Regia: Anders Emblem. Interpreti principali: Amalie Ibsen Jensen, Maria Agwumaro, Lars Halvor Andreassen, Pål Bakke
La macchina da presa inquadra, dall’alto di una collina, una piccola città portuale. La luce è quella notturna dell’estate scandinava, un tramonto che trascolora nell’alba in una lunghissima ora blu. Le strade sono attraversate da poche auto, il silenzio stende un manto delicato e i colori sono stemperati da un sole che si nasconde per qualche ora dietro i monti al di là del fiordo, oltre le navi ancorate al porto.
L’inquadratura iniziale, in cui dopo un tempo dilatato compare una ragazza che ha salito una lunga scalinata, anticipa le ritmica visiva del film: un susseguirsi armonico di quadri fissi in cui i protagonisti appaiono ai margini, se non parzialmente esclusi.

Asta lavora per il giornale cittadino e vive insieme a Live, sua coetanea e compagna, nella piccola città portuale norvegese di Ålesund. Tranne quando lavora, intervistando attivisti, allenatori o capitani delle navi da crociera, il suo sguardo rimane come attonito, perso nel vuoto. Le attività quotidiane da svolgere in casa sono come piccole stazioni sottostanti osservate dall’alto di un volo leggero: lavarsi i denti, sistemare la spesa, stare sedute per terra davanti a un gioco da tavolo fanno parte di un cerimoniale automatico e poco appassionante, ma non è che lo sguardo alzato sulla rotta del volo sia poi tanto diverso. L’orizzonte non sembra riservare sorprese, siano tempeste elettromagnetiche o folate improvvise di vento. E i quadri con cui la regia intaglia le due ragazze sono altrettanto statici, funzionali al racconto e allo stesso tempo segno di un qualcosa che non vuole decidersi ad accadere.

Per Anders Embelm l’efficienza del welfare scandinavo non nasconde profonde ferite familiari, ma tracce di una vita che scorre lineare senza scossoni. Nella passione di Live di restaurare e impagliare vecchie sedie recuperate da solai e uffici pubblici si intravede un Paese seduto che solo energie giovani possono rivitalizzare. C’è tutto: cibo, case modeste ma decorose, strade linde e illuminate. Manca però un bagliore di passione: forse la ferita che Asta nasconde sotto gli abiti è la stessa che la porta a cercare quella di Aslan, un rifugiato che non appare mai nel film ma la cui storia, mettendo insieme frammenti e testimonianze, Asta prova a ricomporre. Immigrato da qualche Paese più caldo e rumoroso ma perfettamente integrato nel tessuto sociale di questa cittadina, operaio in una fabbrica di lavorazione del pesce, è stato rimpatriato a causa di un cavillo burocratico e nessuno ha fatto nulla per evitarlo.
Anche Asta presto capisce che non può più far niente per lui, ma lo stesso scava in questa storia, che si trasformerà in poche righe di cronaca sul gazzettino locale. Non riusciamo a capire se, con il succedersi delle testimonianze che via via la rendono più chiara, il suo sguardo riesca a illuminarsi e i suoi passi diventino più sicuri. Asta si lascia vivere; non per noia o indifferenza, ma per mancanza di ostacoli da affrontare. La stessa relazione con Live è rassicurante e statica, senza un gesto che lasci trasparire un qualsiasi desiderio, che sia fare l’amore o cucinare un piatto elaborato.
Dietro questo lucore metodico non si nasconde né un mostro pronto ad azzannare né l’occasione della vita, come dietro gli angoli delle inquadrature non immaginiamo alcuna sorpresa. E’ la vita quando tutto è stato sistemato e non c’è più da schivare le bombe, maledire il governo o sognare un mondo migliore. La vita davanti a sé, senza sorprese.
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