Io se fossi Dio
Non avrei proprio più pazienza
Inventerei di nuovo una morale
E farei suonare le trombe per il Giudizio universaleGiorgio Gaber, Io se fossi Dio, 1982
A second chance (titolo originale “En chance til”, Danimarca, Svezia, 2014). Regia: Susanne Bier. Interpreti principali: Nikolaj Coster-Waldau, Ulrich Thomsen, Maria Bonnevie, Nikolaj Lie Kaas, Lykke May Andersen.
Il cinema scandinavo ci ha abituati a scendere nei meandri della mente, nelle relazioni disfunzionali all’interno delle famiglie, a scorgere cosa si nasconde dietro la patina della tolleranza e del bisogno di comprendere a tutti i costi le ragioni degli altri. Una pressione culturale che impedisce di pensare in modo difforme, pena il disconoscimento da parte della comunità? Un bisogno di omologazione sociale favorito da molte concause, quali ad esempio il riconoscersi parte di Paesi che anno dopo anno risultano i primi del mondo in qualità della vita? E cosa succede quando non si riesce a far parte di questo assetto socio istituzionale? Perché accanto al primato nella qualità della vita c’è anche quello del numero dei suicidi e dell’alcolismo?
Due poliziotti fanno irruzione nell’appartamento di una coppia di tossicodipendenti, e trovano un neonato nella sporcizia più assoluta. Uno dei due poliziotti è rimasto solo, la moglie l’ha lasciato per un istruttore di nuoto e beve per dimenticare ciò che ha perso. L’altro a sua volta ha avuto un bambino da poco, e vive con la sua compagna in una bellissima casa sulla riva del mare. Il bambino si sveglia tutte le notti e non li fa dormire, ma è così piccolo e loro così affettuosi che continuano a cullarlo fino a quando non si addormenta. Una notte però il bambino smette di piangere, e solo all’alba i genitori si rendono conto che è morto: allora il padre, sedata la madre con alcuni sonniferi, va a casa dei due tossicodipendenti dove lascia il corpo proprio figlio e rapisce il loro bambino, provando con questo scambio a dare forma a una giustizia insieme privata e universale.

E’ giusto scambiare due vite, una che non c’è più per una che riteniamo non potrebbe avere futuro? Una donna che abusa di sostanze sarà necessariamente una pessima madre? E un’altra madre, apparentemente perfetta, può nascondere un segreto tale da rivoltare completamente la vita della sua famiglia?
Susanne Bier racconta il lato nascosto della felicità scandinava, una grande regione in cui lo Stato assiste i suoi cittadini dalla culla alla tomba e garantisce una delle più eque distribuzioni al mondo del reddito, ma che rivela profonde solitudini, famiglie disgregate e alti tassi di violenze sessuali. Una vita apparentemente invidiabile da proporre come esempio a un mondo malato spinge chi la interpreta da coprotagonista a metterla in scena anche al di là del suo naturale dispiegarsi? In altre parole, la spinta a mantenere una qualità della vita elevata giustifica il rammendo subitaneo di ogni imperfezione?

In una vicenda semplice e lineare si intrecciano tematiche universali, dallo scambio dei neonati alla sostituzione degli enti deputati a dispensare giustizia, perché la giustizia sostanziale non può funzionare fino al punto di riparare un torto. Allora è l’uomo, con la sua scelta personale che non viene filtrata da meccanismi imperfetti come la democrazia, il confronto, l’accoglimento delle opinioni dissonanti, l’ascolto, la fatica del diritto, a dare vita al mondo perfetto: un’eugenetica di secondo grado, mediata dal caso e benedetta dalla sorte, è una possibilità che ci si può regalare una volta sola, con una decisione d’impulso, spingendo in basso il proprio piatto della bilancia.
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