Absurdah è un film argentino del 2015 diretto da Daniela Goggi, tratto da una storia vera. Un sordo ma disperato grido d’aiuto autobiografico per il quale il “dovuto” lieto fine non solo non convince, ma non si affaccia nemmeno all’idea di consapevolezza, dell’aver preso coscienza del problema che sta alla base della psicologia. 

Cielo è una ragazza adolescente, cresciuta in una famiglia apparentemente unita composta da mamma, papà e due fratellini più piccoli. 

Il film si apre con una presentazione in prima persona, Cielo si mostra al pubblico come una ragazza a cui non manca nulla. La sua famiglia sta economicamente bene, i genitori sono uniti, almeno per quanto concerne l’educazione dei figli. Nonostante un rapporto conflittuale con la madre che non sorprende, ma al contrario rende più reale la parentesi adolescenziale con annesso senso di ribellione, Cielo è seguita e amata. Ha un rapporto particolarmente empatico con il padre al quale racconta i suoi segreti con spinta libertà, ma che soprattutto “usa” perché più permissivo e meno invadente della madre. 

La storia ci rende inizialmente partecipi di quello che è un tipico ritratto adolescenziale, né più né meno di quello a cui ognuno di noi, più o meno intensamente è passato attraverso. Conflitti con i genitori, convinzione di non essere compresi appieno, bisogno di essere accettati, di sentirsi parte di qualcosa, amicizie che vanno, vengono, deludono e sorprendono con la stessa velocità con cui siamo abituati a chiedere un caffè all’autogrill.  

Il quadro generale si apre quindi con uno scorcio su quello che rappresenta una particolare parentesi temporale, un’età che per definizione stessa cerca e desidera sempre più di quel che ha. 

In poco tempo, sballotati da una scena all’altra senza troppa cognizione di causa, ci rendiamo conto di essere davanti a un potenziale scompenso, come se la mancanza di struttura della trama stessa rispecchiasse in una dubbia coerenza la mancanza di struttura della protagonista. 

Confusi e allo stesso tempo coinvolti da temi che potrebbero da soli essere parte di accurata analisi (non solo filmica), la sensazione è quella di andare a sbattere contro quello che dovrebbe essere il tema centrale dell’intera pellicola: i disturbi alimentari. 

Tra un litigio con la madre, un funzionamento a tratti seduttivo con il padre (complice inconsapevole di una ricerca spasmodica di un ideale maschile irraggiungibile) e l’incontro con un uomo più grande, fattore scatenante di una psicosi “d’amore” perversa, totalizzante e non corrisposta, assistiamo al consumo di un giovane corpo. Un giovane corpo che rifiuta tutto quello di cui avrebbe realmente bisogno, allontana e respinge la guarigione stessa: l’amore. L’amore reale, di un padre e di una madre, di un’amica. Un amore adolescenziale sano, che nasce con la passione e le aspettative che vestono una determinata età, senza farla sembrare un giullare in un circo senza pubblico.  

La protagonista vive l’ossessione stessa del rifiuto da parte di un uomo di cui crede di essersi perdutamente innamorata. Disperatamente innamorata, come ripete più volte nel film. Un uomo che non solo si impone come sostituto negativo del padre (lo si capisce dalla scena in cui il padre la porta in macchina ad un appuntamento, come una sorta di accompagnamento all’altare della disillusione, per consegnarla all’altro sé, all’ombra del padre). Il passaggio del testimone, il testimone della propria giovinezza, della propria unicità come uomo nella vita di una figlia.

Ma da questo momento in poi, tutto il film è una conferma di quanto dannoso possa essere non saper scindere quello che vorremmo da quello che è. 

Un amore straordinario in cui ci sentiamo unici e insostituibili non esiste e se esistesse sarebbe in ogni caso una sfumatura di pericolosa ossessione da incastrare in una realtà quotidiana che nulla ha a che vedere con la parte assoluta di un amore che si impossessa dell’anima, rende schiavi corpo e mente e ci convince di non poterne fare a meno. 

Cielo si trova a ballare da sola una danza perpetua alla ricerca di quel che non c’è. Attribuisce il rifiuto da parte dell’uomo che ama al suo corpo. Ma a differenza di altri film sul genere, Cielo non pensa di essere grassa, non c’è del disformismo in quello che la porta all’anoressia nervosa rappresentata nel film. Al contrario, sa di essere una bella ragazza e di piacere, ma quello che non accetta è di non essere amata (attenzione non desiderata), ma amata dall’uomo in questione. Sogna e allo stesso tempo pretende da lui di essere voluta come lei vuole lui in una delirante visione di un futuro impossibile e nocivo da cui il protagonista maschile capisce ben presto di doversi difendere.

Il crollo psicotico la trascina presto negli abissi inconsci della falsa convinzione di poterlo avere solo se smette di mangiare, se in qualche modo gli dimostra il suo dolore. Facendolo preoccupare può tenerlo vicino  a lei, innescando la miccia di un ping pong emotivo che odora di ricatto morale in ogni suo movimento. 

Assistiamo all’autodistruzione non solo di un corpo ma di un principio di realtà, massacrato da una volontà di controllo dai tratti suicidari e da uno spostamento del dolore da sé stessi all’altro. Un’incapacità di assumersi le responsabilità di una scelta dolorosa, di un senso di inadeguatezza causato dal non soddisfare mai le aspettative create da noi stessi, per noi stessi. 

L’apice arriva con un poco credibile ma molto prevedibile tentativo di suicidio sventato dagli affetti più cari. Fattore che segna simbolicamente la rinascita di quel principio di realtà divorato dal bisogno di un di più che brucia ogni occasione reale di vivere. 

Il finale è, come accennato, un finto lieto fine. Vediamo Cielo anni dopo, che tiene per mano i suoi due bambini. Non sappiamo cosa sia successo né viene dato modo di capirlo. Sappiamo solo che lei è riuscita a sopravvivere a sé stessa, ma la vediamo pur sempre sola, attaccata alla sigaretta che fuma come fosse ossigeno puro dopo un’immersione, più disillusa che rialzata. Quello che traspare è un senso di sottile e dolorosa accettazione più di una presa reale di coscienza e quindi di passaggio ad un età adulta in cui l’amore e il rispetto per sé stessi diventano parte integrante di un processo di cambiamento e di crescita personale. 

Oltre le lacune del film, il sospetto è che ci sia ancora molta pericolosa confusione rispetto ad un tema così delicato come quello dei disturbi alimentari. Che venga trattato troppo spesso come senso di vuoto e poco come disperato tentativo di catalizzare attenzioni e conferme che non riusciamo a regalarci da soli. 

Ecco, non un film da divorare, ma da assaggiare assolutamente si.