“…la vita non l’ha voluto, sig.ra Andersson” (medico)

ALLE SOGLIE DELLA VITA (1958) di INGMAR BERGMAN

La maternità

“Alle Soglie della Vita” è un film di Ingmar Bergman interpretato da donne che parla di donne.

Anzi. E’ un’opera permeata totalmente dalla rappresentazione delle delicate problematiche che toccano quel dono supremo ed insostituibile, unico, che solo le donne riescono ad offrire all’umanità intera: la nascita di una nuova vita.

La prospettiva che offre il regista svedese è, tuttavia, triplice: dalla parte di chi assolutamente desidera e vuole un bambino, dalla parte di chi lo ha perso pur desiderandolo, e dalla parte di chi vuole interrompere una gravidanza. 
Tre livelli di consapevolezza, reali, due estremi ed uno intermedio, messi a confronto dentro le mura di un ospedale, e soprattutto all’interno di una stanza, quella in cui le drammatiche vicende personali di Cecilia, Strina e Hijordis si incrociano tra di loro.

Due premesse indispensabili. Per rendere chiare le mie riflessioni sono costretto a scomporre il racconto nelle singole tre storie per poi procedere alla sua necessaria sintesi. Cosa da un lato possibile, e dall’altro assolutamente necessaria per tentare di cogliere il fulcro del messaggio bergmaniano. Dall’altro, quando ho specificato che è un film di donne (oltretutto appartenenti a classi sociali diverse, e ciò non è ininfluente) è perché voglio marcare l’impostazione del film che è avulsa da ogni incidenza maschile che non sia rimasta quella del concepimento. L’ordine con cui procederò all’esame è inversamente proporzionale, secondo la mia sensibilità, all’importanza delle singole storie.

Quella iniziale, che io definirei intermedia tra quelle estreme, è quella di Cecilia, con la quale oltretutto inizia il film. Arriva in ospedale con forti dolori e perdite di sangue, è al terzo mese di gravidanza, ed è accompagnata dal marito, al quale gli chiede insistentemente se desidera il bambino che porta in grembo. 
Malgrado il tentativo di salvarlo, i medici non ci riusciranno, asserendo che la situazione era compromessa già da tempo. Cecilia, portata nella stanza dove ci sono Stina e Hjiordis , sotto l’effetto dell’anestesia, racconta che quel bambino non era voluto dal padre, e che lei non è stata così forte da proteggerlo, da amarlo per salvarlo. 
Questo senso di colpa lo conferma anche il giorno dopo in una dura discussione con il marito, palesemente divisa dall’amore per lui e dal rischio di pregiudicarlo. L’incomunicabilità coniugale borghese, presente in altre opere di Bergman, emerge nel triste dialogo, evidenziando, così, le reali cause dell’esito della gravidanza di Cecilia.

Hjordis, invece, si trova nel fondo della scala sulla scelta del mantenimento della gravidanza. Giovanissima, anche puerile in molti atteggiamenti, ha nascosto il suo stato alla madre, scappando in ospedale dove è fermamente intenzionata ad abortire. 
Questa sua apparente fermezza decisionale inizia a cedere a seguito di un colloquio con una dottoressa la quale gli dice che non solo lo Stato tutela le mamme sul piano economico, almeno nei primi tempi, ma che, soprattutto, la maternità è “una grazia”, una “gioia immensa”, purtroppo perclusa a molte donne.
Si capisce dalle parole di Hijordis che se avesse un aiuto, e soprattutto se avesse accanto a sé un uomo che la possa aiutare (che purtroppo non ha, e che l’ha spinta invece ad abortire), la sua scelta sarebbe diversa. Dopo una progressiva assunzione di consapevolezza, aiutata da un ulteriore dialogo con un’altra infermiera e con Cecilia, e soprattutto dal dramma che toccherà Stina, deciderà di tenere il bambino e tornerà dalla madre.

Stina, che impersonifica la terza situazione, vuole assolutamente il suo bambino.
La Grazia ha assunto la bellezza del suo volto. Felice, eccitata, spensierata, aspetta spasmodicamente quel giorno. Condivide con il marito la gioia delle piccole modifiche da apportare in casa per accogliere il bambino, nei suoi occhi si legge la gioia di un evento bellissimo.

Ed è incredibile l’atmosfera che si vive in quella stanza, ove, al dolore di Cecilia e alla diffidenza di Hjiordis, domina la sua voglia di maternità. E quando lascia la stanza perché ha le doglie, dirà alle altre due ….”non fate quella faccia….è una cosa meravigliosa….è una vita che nasce”.

Lunga ed angosciante la scena del travaglio che Bergman fa “toccare” con mano allo spettatore, unitamente all’improvviso sguardo preoccupato delle ostetriche e del dottore che arriva urgentemente. Il bambino non c’è la farà. 
Stina si trasforma in un cadavere. Ferma, immobile, non si muove. Viene trasportata nella stanza, sollevata di peso ed adagiata nel letto. E’ un’altra persona. Il volto della Grazia viene soppiantato dallo sguardo della Tragedia. Al mattino, con flebile voce, chiede al dottore come sia stato possibile ed il dottore gli dà due risposte: una medica, fragile, ed una terrena: “la vita non l’ha voluto, sig.ra Andersson”.

In “Alle soglie della Vita” si sente, innanzitutto, l’assoluta mancanza del Dio bergmaniano. Quello silente della sua trilogia e quello simbolico di “Sussurri e Grida”, nonché di altre opere. Qui le dinamiche dialogiche, vere, dirette, evidenziano il presupposto del film, che le donne siano “sole” a gestire o a decidere, a seconda dei casi, il futuro della loro maternità.

Nessun uomo, nessun Dio.

Cosa resta allora? Bergman agisce sui fatti, invertendo, genialmente, i destini delle due estremità del segmento che unisce le opposte storie. Dal lato di chi voleva voracemente, fortemente, indissolubilmente la vita ha deciso il Caso. Non dimentichiamo quella frase: “la vita non l’ha voluto”. 
La vita, quella biologica, può solo offrire un risposta “scientifica”. Ma non serve. Il Caso, ineluttabile, con l’invisibile veste della Morte, presentandosi in quella stanza, ha trafitto le speranze ed il cuore di Stina.

Ma Bergman vuole lasciare allo spettatore una speranza, evidenziando l’importanza del percorso di Hjiordis che alla fine trova nell’ascolto, nell’affetto, e soprattutto nel confronto con gli altri la risposta che invertirà la sua scelta iniziale. Perché, alla fine, saranno questi tre elementi, l’ascolto, l’affetto ed il confronto con gli altri, che salveranno il suo bambino. Insieme ad un quarto. Quello decisivo: la morte del bambino di Stina e l’abisso umano in cui è precipitata che conferma ad Hyiordis il grave errore che stava commettendo.

Storie di quotidiana umanità: questo è Ingmar Bergman.