Tra bufalo e locomotiva la differenza salta agli occhi
La locomotiva ha la strada segnata, il bufalo può scartare di lato
Francesco De Gregori, Bufalo Bill)

Amira (Egitto, Giordania, 2021). Regia: Mohamed Diab. Interpreti principali: Ali Suliman, Kais Nashif, Saba Mubarak, Saleh Bakri, Ziad Bakri, Is’haq Elias

Amira si diletta di fotografia, ha un piccolo studio in cui si cimenta in fotomontaggi che, su loro richiesta, migliorano l’aspetto dei soggetti che ritrae. La quotidianità del popolo palestinese, cui appartiene, viene messa a dura prova ogni giorno e il suo è un modo per far sorridere le persone. E’ figlia di Nawar, per i palestinesi un eroe, per gli israeliani un terrorista, condannato al carcere a vita e da lei conosciuto soltanto attraverso il vetro che li divide durante i colloqui, che affronta insieme alla madre, preceduti da una trafila umiliante di perquisizioni. Durante uno di questi il padre propone a Warda, la donna che ha sposato quando era già prigioniero, di avere un altro figlio. Come Amira, sarà concepito in vitro, facendo fecondare l’ovulo della madre dallo sperma del padre, fatto uscire clandestinamente dal carcere.

Quando è tutto pronto per l’inseminazione artificiale emerge però che Nawar è sterile. La madre tace e la famiglia di Nawar, presso la quale entrambe vivono, inizierà a guardarla con sospetto, avviando una serie di ricerche con l’intenzione di scoprire chi è il padre biologico di Amira. Ziad, il suo ragazzo, la accompagnerà nella ricerca della verità. A lui non interessa il cognome, che sia figlia di un eroe del popolo, ma solo lei, Amira.

Attraverso la ricerca, incontrando i principali sospettati (i fratelli di Nawar, il medico che fece la prima inseminazione, un insegnante di scuola che è sempre stato troppo affettuoso con lei), emergeranno segreti difficili da immaginare, che ciascuno proverà a nascondere per proteggere le persone che ama fino a quando la verità emergerà in tutta la sua forza e nulla potrà più essere come prima.

Il conflitto israelo palestinese, dilatato nel tempo e nello spazio, trova qui il suo terreno di scontro nel corpo di una piccola adolescente. Come in altre storie altrettanto potenti (da “Il figlio dell’altra” a “La donna che canta”) il dubbio sulla paternità è il motore che accende la vicenda: ma è il senso di appartenenza a un popolo la miccia che porta alla deflagrazione. Il giudizio degli altri è più importante della verità: meglio una madre che ha tradito l’amore del marito rispetto al sospetto che la figlia non appartenga al gruppo etnico che combatte il nemico e che attorno a quella lotta ha costruito la sua vocazione identitaria. Il padre, chiuso in carcere, piega una foto regalatagli da Amira, e che vede ritratti il padre e la figlia. Osserva le due metà dei volti, facendole combaciare, e non riesce a non vedere una somiglianza.

In una guerra le ragioni del sangue sono più forti di quelle dell’amore? Siamo figli di chi ci ha cresciuto o di chi ha il nostro stesso DNA? Quanto vale una persona che viene allontanata dal gruppo, se questo è cementato dall’odio contro un nemico? E all’interno dello stesso gruppo etnico, le persone sono tutte uguali e pertanto impossibilitate a seguire una strada propria?

Sono domande che lo zio, che vive in clandestinità, rivolge ad Amira per farla riflettere, dopo che lei ha preso la sua decisione. “E’ rigorosamente una questione di DNA? E quindi non abbiamo una nostra volontà?”.

Amira andrà incontro al suo destino, ricucendo con un filo invisibile la trama di una storia scritta migliaia di volte.

Regista e interpreti allestiscono una vicenda drammatica di eccezionale valore. Una storia che ci precipita dentro le grandi domande dell’esistenza, quelle che spesso la politica ignora perché prendendo una posizione e fronteggiando un conflitto con l’arma del dialogo scontenterebbe troppe persone: interessi radicati, convinzioni profonde, impossibili da scalfire. I colpi di scena ci sono, ma solo perché la vita è più avanti di ogni fantasia. Prima dei titoli di coda si racconta lo spunto che ha portato a questa storia: sono più di 100 i figli nati dallo sperma dei prigionieri fatto uscire dal carcere. Ognuno con un storia, ognuno con un’idea di sé e della propria origine, come altri ragazzi nati in un diverso continente negli anni Ottanta, molti dei quali ancora alla ricerca di un’identità. Pur se lontani migliaia di chilometri, questa è anche la loro storia.