Amore tossico (1983). Regia: Claudio Caligari. Interpreti principali: Cesare Ferretti, Michela Mioni, Enzo Di Benedetto, Roberto Stani, Loredana Ferrara, Gianni Schettini, Mario Afeltra, Silvia Starita, Clara Memoria
Quali strumenti ha il cinema per ricostruire un’epoca, un ambiente, un passaggio socio-culturale? Penso ai costumi, alle scenografie, alla luce, qualcosa che sia in grado di riportare in vita un mondo lontano, insieme agli oggetti che hanno fatto parte nella sua quotidianità. Dietro il fondale, davanti la storia con i suoi protagonisti.
Questo film arriva da anni lontani, e i suoi simboli sembrano essersi persi con la rivoluzione che ha investito il mercato della droga. Fu girato nel periodo in cui molti ragazzi affondavano i loro sogni nell’eroina, sulla base della documentazione raccolta da un sociologo e favorito dalla marginalità commerciale del suo regista, Claudio Caligari, documentarista che in tutta la carriera avrebbe diretto solo quattro film.
Girato prevalentemente a Ostia, racconta le vicende di un gruppo di tossici (questa era all’epoca la loro definizione, poi medicalizzata con il suffisso “dipendenti”) attraverso la lente del “cinema verità”: il linguaggio e il ritmo dei dialoghi, i rumori di fondo, i nomi dei personaggi, tutto è autentico, privo di filtri. Attori e personaggi si fondono in un’unica odissea nella ricerca della roba, nell’iniezione in vena e nel viaggio che ne segue, fino al dopo, al vuoto e al vomito. Poi i servizi sociali, ambienti impersonali dalle pareti scrostate, le psicologhe e il metadone. E di nuovo la consapevolezza della propria condizione, sempre in cerca della roba, vissuta come dannazione ma anche come primo amore. La telecamera segue i personaggi in giornate sempre uguali, dove l’unico senso viene dato dalla ricerca spasmodica della sostanza da spararsi in vena. Quando questa cronaca cede il passo a una svolta drammatica condita di simbolismo il film perde di credibilità, come se l’ingresso della vicenda nella dimensione drammaturgica, a scapito di quella documentaristica, ne sancisse il crollo strutturale.

Film anomalo, eccentrico, i cui protagonisti con il tempo hanno sgomberato le strade che li avevano visti ventenni in cerca di una dose, l’opera prima di Claudio Caligari è un affresco realista fatto di conati e schizzi, sangue e sputi, tutto ciò che un manuale di cinema commerciale bandirebbe fin dalle prime pagine. Se ci mettiamo anche flashback e inquadrature fuori fuoco, un sonoro fatto di rumori sovrapposti e una sceneggiatura traballante (forse perché riscritta in continuazione con la collaborazione degli attori, molti dei quali arrestati durante la lavorazione), il desiderio di vederlo evapora facilmente.
Ma è questa la domanda: il cinema serve solo a divertirsi o anche a riflettere? E, in quest’ultima ipotesi, come si attiva la riflessione? Quanto conta la distanza tra spettatore e spettacolo? Quanto il racconto del “viaggio”, una volta assunta l’eroina, può épater les bourgeois e quanto può affondarli in proiezioni di sé che non avrebbero mai pensato di fare?

E ancora, cosa rappresenta per Caligari la marginalità che ha scelto per tutta la vita? Una posizione di libertà (ma senza denaro)? La possibilità di girare poca pellicola, ma solo quella in cui davvero credeva? L’incapacità di scendere a compromessi?
Ecco, al di là delle vicende narrate sono tanti gli interrogativi che apre questo film.
Cesare, Michela, Enzo, Teresa, Ciopper, Mario, “Debora”, Ciccione, Capellone, sono altro da noi, ma un altro che è vissuto e ha cercato una strada, anche se era un vicolo cieco. Quanto siamo in grado di avvicinarci a questa alterità derelitta, soprattutto in un’epoca rabbiosa e performante, può dare il segno della nostra capacità di ascoltare storie che non ci appartengono ma che possono raccontarci ciò che ancora non conosciamo.
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