Tom Hooper “IL DISCORSO DEL RE (The King’s Speech) del 2010, vincitore di ben 4 premi Oscar.

Ho deciso, partendo da questo film, di aggiungere una riflessione più approfondita in relazione al primo colloquio psicologico/clinico. Naturalmente nel film non si parla di uno psicologo, e, soprattutto, quello rappresentato non è in nessun modo paragonabile ad un primo colloquio psicologico. Nello stesso tempo, a mio avviso, vi sono molte tematiche interessanti legate al setting psicologico/clinico sulle quali riflettere.

Il film è tratto dalla vera storia del rapporto tra il Duca di York (Albert, secondo genito del re d’Inghilterra Giorgio V) e di un logopedista di origine australiana, Lionel Logue. Albert ha un serio problema di balbuzie che deve assolutamente risolvere soprattutto perché è invitato spesso a tenere dei discorsi in pubblico. Dopo diversi tentativi falliti la moglie di Albert (Elizabeth, Duchessa di York) si rivolge a Lionel Logue, un esperto del linguaggio che utilizza un metodo innovativo per la cura della balbuzie.

Quella che segue è la prima clip che ho inserito, relativa al primo incontro tra la Duchessa di York, Elizabeth, e Lionel Logue.

Il primo elemento che mi ha colpito in questa scena è che Elizabeth prende l’ascensore, guarda in su ed invece scende. Scendere in un linguaggio psicologico/psicoanalitico indica la direzione verso l’interno, il passato, l‘inconscio. Simbolicamente la scelta del regista è molto efficace. Per una persona aristocratica, sempre abituata a salire, questo passaggio è molto significativo, indica una discontinuità.

Un secondo elemento è dato dal linguaggio che utilizzano le due persone: ovviamente aristocratico lei, eccessivamente popolano lui: “sto al gabinetto, come mi avete scovato, il maritino dovrà fare un salto qui”, ecc.” Personalmente l’ho trovato eccessivo, a volte diventa un po’ stereotipato. Anche perché sappiamo che Lionel è una persona colta che conosce a memoria tutte le opere di Shakespeare. Comunque, a parte questa piccola critica, sono due mondi diversi che s’incontrano, apparentemente senza avere nulla in comune.

Terzo elemento. Lionel è molto sicuro di sé, ma afferma in maniera chiara che lui può risolvere i problemi delle persone che vogliono essere aiutate: “sono molto sicuro di chiunque voglia essere curato”. Non ha detto che risolve i problemi di tutti. È chiaro che questo vuol dire che se una persona vuole realmente essere aiutata deve accettare le sue regole, perché lui ha l’esperienza giusta per sapere che solo all’interno di un “setting” di lavoro può accadere un cambiamento, niente compromessi quindi. Tutto questo viene sintetizzato nella frase: “mia la partita, mio il campo, mie le regole…

Si potrebbe leggere questa prima interazione dal vertice del potere: entrambi voglio avere la meglio sull’altro. Io penso invece che Elizabeth sia molto spaventa, soprattutto per il marito e per le ripercursioni sociali del suo problema, Lionel vuole sondare la motivazione verso il cambiamento evitando facili compromessi. Lionel non è compiacente verso Elizabeth, nemmeno quando gli viene detto che il marito è il Duca di York. La domanda potrebbe essere: ma Lionel vuole prendere questo caso in cura? La risposta è facile: sì. Sembra però che si muova in senso inverso, non è per nulla “seduttivo”. Io direi che lo è; non è semmai “compiacente”. Lionel seduce, nel senso etimologico della parola “condurre a sé”, lo fa però mettendo in evidenza la sua competenza e non accogliendo a tutti i costi la richiesta esplicita dell’altro.
I due video che seguono sono dedicati all’incontro tra Albert (Duca di York) e Lionel.

Vi sono moltissimi elementi da cui partire o da analizzare, ovviamente non lo farò in questa contesto per evitare di dilungarmi troppo. Cercherò soltanto di rintracciare quegli elementi utili al discorso che sto sviluppando, ovverol’incontro tra un professionista che ha in mente un chiaro modello di lavoro ed una persona che fa una domanda di aiuto. Il primo aspetto che mi colpisce è, anche in questo caso, sottolineato dall’ascensore. Lo spazio non è quello conosciuto, è stretto, la coppia deve quasi abbracciarsi per scendere. Da subito, anche per Albert, si sovverte il piano delle aspettative.

Questo aspetto viene ancora di più sottolineato quando Lionel chiede di poterlo chiamare Bertie. Anche in questo caso è necessario leggere questa interazione sul piano simbolico. Nel colloquio clinico, almeno in un modello psicoanalitico, si utilizza il “lei” e soprattutto non si propone un tono eccessivamente confidenziale; però, in questo caso, Lionel sta dicendo che poste alcune regole di base, quello che avverrà tra loro due sarà una relazione molto intima e confidenziale.

Un ulteriore aspetto, a mio avviso di grande interesse clinico, è la conclusione di questa clip. Lionel dice che gli ridarà lo scellino nell’incontro successivo, Bertie gli risponde: “se ci sarà una prossima volta” e Lionel: “io ancora non vi ho accettato come paziente…”

Quello che la psicologia clinica ha messo in evidenza è che i primi colloqui sono fondamentali per capire la “vera” domanda del paziente e soprattutto per capire se lo psicoterapeuta può realmente aiutarlo. Questi semplici aspetti ci dicono che la “presa in carico” avviene solo dopo questa prima fase valutativa. 

La domanda di Berie nasce dall’idea che il vero e proprio lavoro inizi quanto il professionista applica una particolare tecnica rivolta a risolvere il problema e fino a quel momento non era stato applicato nessun intervento diretto. Nella mente di Lionel, invece, il lavoro è già iniziato evidentemente già prima di incontrarlo, durante il primo colloquio con la moglie. Già da quel momento Lionel ha consegnato ad Elizabeth molti degli strumenti con i quali lavora.

A questo proposito mi viene in mente la differenza tra “prodotto visibile” e “prodotto invisibile”. In una logica di mercato io pago per ottenere un prodotto. La domanda è: ma qual è il prodotto del primo colloquio? Se fosse un prodotto non immediatamente verificabile (visibile) potremmo ugualmente considerarlo tale? Credo che proprio in questa dinamica si nasconda uno dei principali problemi per gli psicologi. La sensazione che non sia immediatamente percepibile quello che il professionista consegna all’utente potrebbe far pensare che in fondo non stia svolgendo un intervento “altamente professionale”, e se questo inizia ad insinuarsi nella mente del clinico forse diventa ancora più facile pensare che un simile colloquio potrebbe anche essere svolto gratuitamente. Più avanti chiarirò meglio quest’aspetto.

Questa è l’ultima clip che volevo mostrare. Lionel inizia ad applicare la sua tecnica terapeutica, l’obiettivo non è quello di curarlo ma quello di fagli capire che Bertie ha tutte le risorse per produrre un cambiamento. Questa interazione è fondamentale. Come ho scritto prima, nei primi colloqui, il lavoro del professionista è quello di costruire una vera domanda di aiuto sovvertendo, a volte, le aspettative dell’utente/paziente. Il colloquio però ha un’altra funzione:  deve nascere dall’incontro delle due persone un elemento nuovo: il prodotto di quell’incontro. Anche in questo caso la lettura deve essere simbolica. Il prodotto che nasce da quell’incontro è un prodotto reale, tangibile: l’incisione della voce di Bertie sul disco. Nel colloquio psicologico/clinico non è un prodotto reale, ma una piccola trasformazione nella mente della persona. Qualcosa che prima non c’era e che lo potrà indurre a proseguire gli incontri perché realmente crede che quella persona può aiutarlo. Bertie desiste, lascia perdere, non vuole nemmeno riascoltare la sua voce. È arrabbiato per il suo problema ed è soprattutto resistente all’idea che con Lionel hanno costruito qualcosa di nuovo. Lionel decide di dare l’incisione a Bertie, perché è importante che lui si porti via almeno il prodotto di quell’interazione. La sensazione di aver fallito in quel primo incontro rimane però anche a Lionel che alla fine si dà dello stupido. Questo a dimostrazione di quanto sia difficile ed emotivamente impegnativo un colloquio condotto in modo così relazionale. Sarebbe stato più semplice non porre alcuna domanda ed iniziare subito un trattamento, sarebbe stato sicuramente più semplice anche da un punto di vista emotivo.

Nello sviluppo del film Bertie, una sera, disperato, riascolta, finalmente, la sua voce incisa e scopre che il quel primo colloquio è successo qualcosa di nuovo, per la prima volta parla senza balbettare. Da quel momento, con alterne vicissitudini inizia la relazione terapeutica tra loro due.

Chiaramente Lionel ha dalla sua parte una grande fortuna: il duca di York è fortemente motivato a risolvere il suo problema, soprattutto da quando ha capito che potrebbe essere lui il futuro re d’Inghilterra. Diversamente, per il suo carattere e la sua difficoltà ad entrare in relazione con gli altri, avrebbe avuto molte più difficoltà a continuare il suo percorso di cura.

Ovviamente, per chi non lo avesse visto, l’invito è di farlo, è un bel film e soprattutto un bell’esempio di una relazione professionale basata sulle competente professionali ed umane.