Ancora un giorno (titolo originale “Another Day in Life”. Polonia, Spagna, Germania, Belgio, Ungheria, 2018). Regia: Raùl de La Fuente e Damian Nenow. Soggetto: Ryszard Kapuściński. Sceneggiatura: Raúl de la Fuente, Amaia Remirez, Niall Johnson, David Weber, Damian Nenow
Curiosa commistione di documentario e film d’animazione, reportage e graphic novel, “Ancora un giorno” è la trasposizione su pellicola di un piccolo libro dal titolo omonimo di Ryszard Kapuscinski, leggendario giornalista polacco dell’agenzia di Stato Pap del quale il 23 gennaio di quest’anno ricorre il quindicesimo anniversario della morte.
I giorni narrati nel film sono lontani nel tempo e nello spazio, e poco conosciuta è la storia africana che raccontano, figlia di uno sguardo sul continente nero ben diverso da quello che ci appartiene oggi. La rivoluzione dei garofani, che il 25 aprile del 1974 sancì il ritorno del Portogallo alla democrazia, fu l’innesco di tutte le vicende riportate nel film. L’anno successivo il Portogallo riconobbe l’indipendenza dell’Angola, che aveva occupato a partire dal XV secolo, ma i gruppi indipendentisti che fino a quel momento avevano combattuto il colonialismo iniziarono a misurarsi militarmente per chi avrebbe dovuto gestire il potere in una nazione finalmente libera dai colonizzatori.
Chiuso in una stanza d’albergo, ultimo rimasto tra i reporter stranieri a Luanda, una capitale ormai fuori controllo, Kapuściński volle partire con un convoglio improvvisato per raggiungere il fronte meridionale. Stanco di descrivere un clima da fine impero, con i coloni portoghesi in attesa di navi che li portassero in una madrepatria che non avevano mai conosciuto, decise di raccontare la rivoluzione da dentro, schierandosi con una delle fazioni in lotta con la curiosità del reporter e l’incoscienza di un bambino.
Il viaggio consisteva in più di 600 km lungo una strada dove gli agguati e gli incidenti erano all’ordine del giorno, ma era l’unico modo per capire davvero cosa stesse succedendo. Lungo il percorso conobbe Carlota, una guerrigliera di nemmeno 20 anni che durante una sosta, un momento inaspettato in cui tutto appare fermarsi in un presente irreale, gli confidò che dopo la guerra avrebbe voluto diventare infermiera. Il volto di Carlota è quello della copertina del libro, il suo personaggio occupa alcune scene del film, ed è immortalata da una fotografia scattata dal reporter proprio in quel pomeriggio sospeso di pace. Ma incontrò anche uomini, tanti. Delusi, spaventati, eroici, ubriachi, pavidi, aggressivi.

Ai posti di blocco improvvisati lungo l’unica strada incontrò gruppi di guerriglieri ai quali presentarsi con la parola sbagliata (“kamerada”, alla russa, oppure “irmão”) significava firmare la propria condanna. Due erano i fronti contrapposti, uno di ispirazione comunista sostenuto da URSS e Cuba, e l’altro da USA e Sudafrica. Kapuściński era dentro la cronaca, ne faceva parte attiva, e in quel ruolo si chiese, alla fine del film, se avesse dovuto o no compiere un gesto che avrebbe modificato gli eventi di quella guerra.
Siamo al di là dell’osservazione partecipante, delineata da Malinowski come metodo principe di analisi antropologica; ci troviamo lungo un confine labile in cui la cronaca non è più solo l’oggetto di una narrazione, ma la costruzione stessa del narratore che di quella vicenda è parte attiva. Una sorta di cortocircuito dove la vicenda è osservata da occhi che ne fanno parte e scritta da mani che ne possono modificare il percorso.
Ricardo, il protagonista del film, è un uomo impavido e brillante, usa telescriventi che spesso si bloccano, fuma, suda e condivide birre con altri compagni nell’autunno bollente di Luanda, una città allo sbando dove la spazzatura si accumula per le strade e regna una grande confusão, e sembra non aver paura di nulla.

Mi sono chiesto se il vero protagonista avrebbe apprezzato questa sua descrizione di eroe senza macchia e senza paura, e se lo spettatore che non lo conosce avrebbe a sua volta creduto a un personaggio così privo di sfumature. E’ il rischio che capita quando si scrive e si racconta un uomo che è stato molto ammirato, quello del biopic che si appiattisce sull’agiografia.
Raúl de la Fuente (documentarista) e Damian Nenow (regista d’animazione) hanno raccontato quei mesi, e quelle persone, con la tecnica animata del motion capture, attraverso colori saturi e un crudo realismo nelle scene in cui appaiono i corpi straziati dei miliziani uccisi e lasciati sulla strada alla mercé degli animali e del caldo, alternando il racconto con testimonianze dal vivo raccolte ai giorni nostri da coloro che di quella guerra furono i protagonisti e hanno avuto la ventura di sopravvivere.
Sovrapposizione di registri narrativi, piani di comunicazione e ruoli, per un risultato complessivo che testimonia la violenza delle rivoluzioni e le speranze, spesso disattese, che sono alla loro base. Raccontarne gli esiti dopo più di 40 anni è come scoprire il dietro le quinte del tempo.
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