L’ARROGANTE PSICOTERAUPETA E L’ALLEANZA MORTIFERA
Eros e Thanatos.
Inizia così, con uno allucinato slow movie, la prima parte della “trilogia della depressione” di Lars Von Trier, ed anche, lo diciamo subito, la più tortuosa.
Lui e Lei, un amplesso sotto una doccia conclusosi in un letto, mentre il loro bambino, nella stanza lì vicino, cade da una finestra lasciata aperta, morendo al suolo. Da questo momento inizia il tentativo di Lui, psicoterapeuta, di aiutarla a superare il suo “trauma”, cioè la profonda depressione in cui Lei è precipitata, certo che l’ab-uso dei psicofarmaci la stia danneggiando.
Decidono così di isolarsi dal mondo recandosi in un bosco, denominato l’Eden, dove c’è una loro casa, per tentare, attraverso varie tipologie di transfert, di superare il suo gravissimo stato.
Il teatro dell’opera è il primo ingegnoso valore aggiunto che ci offre il regista danese: una sfera, immaginifica, strutturata in alto da una volta celeste con costellazioni stellari inventate, e giù in basso da una natura totalizzante.
Giù in terra? Nel nostro pianeta?
No….. giù nell’inconscio.Non c’è un pianeta terra, o almeno c’è solo apparentemente.
Von Trier rappresenta un bosco come rigetto dell’Io cosciente, perché solo nel luogo dell’inconscio può operare efficacemente un psicoterapeuta, cercando di liberare in un transfert le resistenze dell’altro. E questo avviene in una foresta, perfetta raffigurazione dell’Es. Alberi numerosi, zone fitte di vegetazione, rami attorcigliati fra di loro, ruscelli, praterie, fauna, sono entità chiare ed affascinanti nella loro individualità, ma incomprensibili e terribili nelle dinamiche che talvolta li coinvolgono insieme (tempeste, nubifragi, terremoti, violente forme di sopravvivenza per la vita animale). “Qui regna il caos” dirà una volpe con voce umana.
Esattamente come nel nostro inconscio, pieno di ombre, capace di isolare singoli elementi ma incapace di modularli nel loro insieme secondo un percorso razionale, che tocca a noi realizzare. .Lui vuole salvare Lei. Ricordiamolo. E la vuole salvare, presumendo (erroneamente) che all’interno di un territorio che considerava neutro, appunto una foresta, la moglie, con il suo apporto, potesse guarire.
E inizialmente sembra riuscirci. Ma Lui è arrogante, come spesso lo definisce Lei. Solo perché da psicoterapeuta ritiene che l’incontro con l’Altro, il dialogo, la convinzione, l’aiuto fisico, l’ascolto siano gli strumenti per superare il trauma. Invece non è così. O almeno lo pensa Von Trer, perché ho sempre ritenuto Antichrist forse il film più autobiografico della sua intera filmografia.
Vero che la depressione produce opere d’arte, a maggior ragione se in un’opera il suo autore vuole rappresentare un proprio conflitto, uno scontro. Come fa sicuramente Lars Von Trier con Antichrist.
Una lotta sanguinaria. Tra chi? Tra Lui, da un lato, e dall’altro una alleanza mortifera: Lei e la Natura, ambedue madri. Tutto all’interno dell’Es-Eden trasformatosi in un inferno. La natura, ostile, burrascosa, tetra, urlante, ma soprattutto unicamente impulsiva, che offre i suoi figli per assistere la donna, rappresentati nel film da tre animali fedelissimi (il cerbiatto, la volpe e il corvo, denominati i “tre mendicanti”, che rappresentano anche la costellazione celeste), e che come Lei “perdono” il “feto” (o lo perdono fisicamente o lo uccidono).
Questa alleanza, in verità, era nata già un anno prima, quando Lei, da sola con il suo bambino, si era recata nella casa per scrivere una tesi che aveva ad oggetto la figura della strega nel ‘400. Li sorge questo macabro connubio tra Lei e la Natura matrigna che aveva trovato nella stregoneria, nel maleficio, lo strumento per opporsi al nuovo Dio, ben diverso rispetto a quello del ‘400.
Chi? il Dio-uomo, colui che ha mantenuto un potere nei secoli, il potere di pace, di guerra, e anche, nell’ultimo secolo, di poter guarire (o la presunzione di poterlo fare) la mente umana penetrando nella stessa.La macabra perversione di Lei, figlia di questo connubio, non è solo legata alla sfera sessuale, sia nella reiterazione animalesca del godimento (la voglia estrema di fare sempre l’amore) o nell’eliminazione dello stesso (il taglio con la forbice del suo clitoride in primo piano, una delle scene più scioccanti nella storia del cinema d’autore), o ancora peggio nell’eliminazione della fertilità maschile (lo sperma trasformatosi in sangue); ma aveva toccato anche il bambino, quando la madre nell’infilargli forzatamente le scarpe all’incontrario un anno prima aveva anticipato sofferenze che sarebbero culminate in quella caduta la cui accidentalità resta il più importante mistero del film.
Il finale è drammatico, anche se nel contempo la scena conclusiva potrebbe preludere ad una “liberazione” del genere femminile dalla tenaglia mortifera della madre Natura.
Ma quello che importa è il giudizio che uno spettatore perplesso potrebbe elaborare. Misoginia? Autobiografia? Una semplice favola horror? Tutti e tre gli elementi insieme? Penso, molto più semplicemente, che la geniale opera del regista danese si possa spiegare nel suo obiettivo solo con due elementi: la conseguenza del trauma iniziale ed il rapporto follia-libertà.
Indipendentemente dal carattere dolosamente omissivo di Lei (che ha visto e non ha detto niente) o completamente fortuito della caduta del bambino, il senso di colpa aleggia su tutta l’opera, nella parte più diegetica della stessa. Se questo rappresenta il punto di partenza dell’attività psicoterapeutica, Lei cercherà spesso di ribaltare la sua situazione di inferiorità psicologica cercando di addossare a Lui il poco amore nei confronti del figlio.
Esattamente come tutti coloro che sanno di aver sbagliato ma addossano le loro colpe verso altri come forma di difesa.
Ma soprattutto, Von Trier, sotto le spoglie del simbolico conflitto, vuole far emergere quanto la follia possa rappresentare una delle forme più alte di libertà, di espressione, nel momento in cui con forza si emancipa dalle maglie del condizionamento, ora anche scientifico, quindi farmacologico nel caso di specie, dell’Es da parte di un Io retto ed omologato.Opera incredibile di un genio assoluto.
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