Voglio essere per il resto della mia vita un atto di bontà

Il libero arbitrio, Signori e Signore. Il punto di partenza e quello di arrivo nel capolavoro distopico e distorto di Stanley Kubrik, Arancia Meccanica. 

Inghilterra, futuro prossimo. Alex De Large (un incommensurabile Malcolm McDowell), insieme ai suoi amici drughi, pratica la cosiddetta “ultraviolenza”: picchiano gli uomini, violentano le donne finendo addirittura per ucciderne una. Alex viene arrestato per omicidio e condannato ad un lungo periodo di detenzione. Dopo un paio d’anni accetta di entrare a far parte del programma “cura Ludovico”, un nuovo metodo di lavaggio del cervello pensato dal governo per combattere la criminalità. 

Che una certa cattiveria, un certo istinto animale sia insito nell’animo umano lo capiamo già dalla prima sequenza del film che rivela da sola la portata narrativa ed espressiva di Arancia Meccanica: dallo sguardo in primo piano di Alex che si rivolge direttamente agli spettatori, la macchina da presa indietreggia per mostrarci la scenografia, pop e depravata del Korova Milk Bar, mentre il protagonista introduce sé stesso e i suoi compagni ad un pubblico già pronto ad esplodere. 

Mossa da un’indimenticabile sinfonia sulla (ultra) violenza che trova nella mente umana terreno sempre fertile, la pellicola è prima di ogni altra cosa una spietata parabola sul libero arbitrio che vediamo qui manifestarsi in tutta la sua bruciante dicotomia:

Cattivi per libera scelta o buoni per imposizione? 

La posizione di Kubrik è sempre stata molto chiara: lo stato di natura è sacro! Un uomo deve poter scegliere anche di essere malvagio e tutta l’attenzione che viene data alla figura dell’antieroe valida e conferma questa posizione ogni giorno di più. 

L’essere umano non è “semplicemente” o buono o cattivo. In ognuno di noi regnano sia la Luce che l’Ombra. L’incidente mortale fra i due avviene quando scegliamo, beatamente inconsapevoli del danno che ci stiamo facendo, di non riconoscere la parte oscura. Di reprimerla, appunto. Come se potessimo avere potere su qualcosa di così estremamente più potente di noi, qualcosa che non risponde a nessuna legge, tantomeno a quella di un Governo totalitario che impone la repressione degli istinti individuali che altro non fa che fomentare l’ultraviolenza come crudele passatempo di giovani individualisti anarchici. 

Gli atti violenti sono ahimè figli dell’inconscio, parte di un’orchestra che Kubrik guida magistralmente in una satira cinematografica che è insieme racconto e denuncia di una realtà sociale contemporanea. 

Pensiamo solo ai risvolti sociologici della pellicola: Kubrik lascia New York per Londra, preoccupato in parte dalla crescente criminalità. Il regista non poteva certamente prevedere l’ondata di violenze che colpì il Regno Unito, in qualche modo connesse alle suggestioni della pellicola, che destarono ovviamente enormi polemiche. Tanto, ricordiamolo, da portare l’autore ad impedirne la circolazione per diversi anni. 

È palese che Kubrick non avesse la minima intenzione di incitare alla violenza, semmai il contrario. Il regista ricevette poi diverse minacce affinché il film venisse ritirato dalle sale. Non è forse anche questa una distopica ultraviolenza? Non si tratta allo stesso modo di impedire il libero arbitrio? Una giustificazione come un’altra per “diventare il cattivo”. Ma quel cattivo, quell’antieroe è parte integrante e compensatoria di ogni essere umano. La difficoltà estrema sta nell’accettarlo in un mondo in cui la cosiddetta bontà è diventata un biglietto da visita, una capacità tecnica da aggiungere al curriculum. “Salve io so usare Microsoft…ah e so essere buono. Un uomo retto”. Come se fosse qualcosa da “vendere”, un’immagine da mostrare e non qualcosa da riconoscere e coltivare che vive perché esiste anche il suo opposto, il male.

A rendere Arancia Meccanica una pietra angolare degli anni ’70, oltre all’eccezionale maestria tecnica, è il memorabile personaggio principale: appassionato allo stesso tempo sia di stupri che di Beethoven a dimostrare, ancora una volta, come a renderci umani (nel senso di esseri umani), sia la presenza di bene e male, di buono e cattivo. Pace e violenza. 

Nonostante l’efferatezza delle azioni mostrate, chiudere gli occhi di fronte ad un’opera di questa portata sarebbe come non volersi più guardare allo specchio. Quattro nomination agli Oscar, (tra cui quelle per il miglior film e miglior regista), nessun premio vinto. 

Lo sconvolgimento a cui assistiamo dopo la cura Ludovico è anch’esso una prova tangibile di come l’essere umano cerchi vendetta. La vendetta è essa stessa figlia dell’Ombra. Consuma, logora, uccide. Però è considerata positivamente, perché la parola stessa suggerisce un’azione in conseguenza di un attacco. Ammettere che l’uomo ha anche una parte oscura che deve imparare ad inglobare per poter utilizzare il dono straordinario del libero arbitrio significa anche avere la libertà di scegliere quale delle due parti far prevalere. 

E’ interessante notare lo sconvolgimento che si realizza dopo la cura Ludovico: tutti coloro che erano stati vessati da Alex e dai suoi drughi ora si prendono la loro rivincita. Alex non è mai diventato realmente buono, ma la cura gli procura un malessere fisico ingestibile nel momento in cui il suo istinto violento sta per prendere il sopravvento, tanto da tentare il suicidio.

È con l’epilogo però che Kubrick dà la sua stoccata finale. Il ministro degli Interni, visto il fallimento della cura e per evitare la caduta del governo, chiede ad Alex di collaborare. Furbescamente Alex ottiene di diventare capo della polizia: esercitare la violenza in modo legale, nulla di meglio per il nostro protagonista. Il libero arbitrio vince, aggirando i benpensanti e l’obbligo della bontà. Vince anche l’ultraviolenza in fondo, distopica per una società civile proiettata al bene ad ogni costo, ma unico modus vivendi per Alex.