Argentina, 1985 (Argentina, USA, 2022). Regia: Santiago Mitre. Interpreti principali: Ricardo Darin, Peter Lanzani, Alejandra Flechner, Santiago Armas, Laura Peredes, Carlos Portaluppi
Dal 1976 al 1983 l’Argentina fu governata da una giunta militare che aveva preso il potere con un colpo di Stato. Nel 1983 si tennero libere elezioni al termine delle quali risultò eletto come Presidente Raùl Alfonsìn. Tuttavia la transizione democratica non poteva definirsi completa in quanto gran parte dei comandanti delle forze armate continuavano a esercitare il proprio ruolo. Dopo un tentativo di far gestire il processo alla giustizia militare, per ordine del Presidente le indagini e il successivo processo vennero affidati alla giustizia civile.
Questo film racconta la storia di quel processo. Non lo fa con il classico plot del dramma giudiziario, incentrando il focus della narrazione sul dibattimento. Ma sceglie il punto di vista di Julio Strassera, nominato Pubblico Ministero e incaricato delle indagini, e della sua famiglia. Un incarico che mette a rischio l’incolumità di moglie e figli e li espone a continue minacce anonime. Julio fa di tutto per rifiutare questo incarico perché è perfettamente consapevole del potere che ancora gestiscono i militari, con i servizi segreti e le modalità antidemocratiche che hanno contraddistinto il loro operato. Ma sa anche che non può rifiutarsi, perché è un funzionario di giustizia e deve far rispettare la legge. Nessuno che abbia un minimo di esperienza giudiziaria lo vuole affiancare in quella che apparentemente è una missione suicida. E così si trova accanto Luis Moreno Ocampo, giovane procuratore privo di esperienza e componente di una potente famiglia di militari; insieme costituiranno una squadra di persone giovani, motivate dal bisogno di lavorare e dal desiderio di mettersi in gioco.

Avranno poco tempo per reperire le prove, e gli ostacoli alle loro indagini saranno molti. Ma riusciranno nell’intento di ricostruire circa 700 vicende di cittadini rapiti, torturati, minacciati, privati della libertà senza un giusto processo, o assassinati.
L’udienza preliminare si apre con le dichiarazioni dei dieci imputati, tutti i componenti della giunta militare al Governo, che con un breve discorso fotocopia non riconoscono l’autorità della Corte chiamata a giudicarli; il processo proseguirà con testimonianze toccanti che raccontano umiliazioni, violenze, sopraffazioni che con la giustizia e con la lotta al terrorismo non avevano nulla a che vedere: chi conosce il film Garage Olimpo di Mario Bechis, o ha letto il suo libro “La solitudine del sovversivo”, sa cosa accadeva in quegli anni in un Paese completamente asservito al potere dei militari.

Il film dura 2 ore e 20 minuti ma scorre lineare e senza incertezze, alternando la missione pubblica di Strassera e i suoi dilemmi personali. L’ironia, che spesso accompagna i gruppi di lavoro cui è stato affidato un compito gravoso e complesso, emerge qua e là durante la vicenda, così come le relazioni interne alle famiglie del pool di investigatori: come per Ocampo, che viene disconosciuto dalla schiatta di militari cui appartiene, perché voler sostenere l’accusa significa rifiutare un ruolo che era appartenuto loro fin dall’istituzione dell’esercito. E durante un dialogo tra il procuratore e il suo vice emerge una frattura, un dubbio: cosa aveva fatto il procuratore, durante gli anni bui della dittatura, per cercare di tutelare i cittadini e far rispettare la legge? Torna alla mente la vicenda dei professori universitari che, in Italia nel 1936, si rifiutarono di firmare il Manifesto per la difesa della razza e furono esautorati dai loro incarichi e qualcuno spedito l confino. Erano eroi? Obbedivano a un imperativo morale? Credevano che il loro gesto sarebbe stato compreso e copiato? E coloro che lo firmarono, volevano semplicemente continuare a fare il proprio lavoro? Erano da inserire nel girone degli ignavi? O davvero credevano all’esistenza delle razze?
E allora perché Strassera, o anche un noto cardinale che con il tempo ha poi fatto carriera nella sua confessione, nell’Argentina di quegli anni sotto la dittatura non vollero o non seppero intervenire? Il loro intervento chiaro e diretto sarebbe servito a qualcosa? Oppure quando un fiume è in piena non è possibile opporsi alla sua furia, ed è più opportuno aspettare che si calmi? Che il contesto esterno e le condizioni di lavoro consentano loro di operare al meglio, per il proprio dio o per il proprio presidente?
E’ una domanda che cade quasi casualmente nel film, e di fronte alla quale il procuratore si sente ferito e reagisce con veemenza. Ciascuno di noi può immaginare cosa avrebbe fatto in situazioni analoghe, e ognuno può darsi la propria risposta. Ma è importante che in un film possano emergere spunti così preziosi, che un semplice dialogo di pochi secondi sappia offrire la possibilità di esplorare mondi interi di possibilità.
La chiave del film è nella locuzione finale della requisitoria, Nunca Màs, che è anche il titolo del rapporto della Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas Argentina istituita nel 1984 dal presidente neoeletto per fare luce sul dramma dei desaparecidos.
In Argentina si è tenuta l’unica transizione democratica che ha saputo affrontare il proprio passato con un processo: in altre situazioni analoghe (Sudafrica, Uruguay, Spagna) la scelta è caduta invece su procedure di negoziazione che di fatto hanno evitato pene detentive ai dittatori. Il film racconta proprio questa storia, di come un Paese ancora fragile nella sua democrazia abbia saputo affrontare il proprio passato attraverso gli strumenti giuridici che costituiscono le basi imprescindibili di una democrazia. Film necessario, documentato, in cui il piano umano e quello giudiziario, sono raccontati senza didascalie ma con l’asciuttezza di una cronaca. Ottima la direzione degli attori e straordinaria la caratterizzazione che Ricardo Darin ha saputo dare al suo personaggio.
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