“È vero che non sei responsabile di quello che sei, ma sei responsabile di quello che fai di ciò che sei.” (Jean-Paul Sartre)
Nel 1971, l’allora giovane ricercatore Philip Zimbardo condusse un esperimento (noto come l’esperimento della prigione di Stanford) che ha fatto storia per le conclusioni a cui inaspettatamente era giunto.
Avevano allestito, all’interno di locali sotterranei della cittadina di Standford, un carcere con tanto di celle e spazi comuni. Due gruppi di studenti universitari, tutti maschi, volontari, erano stati suddivisi in modo casuale tra guardie e carcerati. Zimbardo voleva osservare le dinamiche che si sarebbero strutturate vivendo un’esperienza immersiva, totale, per diverse settimane.
L’esperimento venne interrotto solo dopo pochi giorni perché si era organizzata una dinamica violenta del tutto spontanea, nonostante tutti quelli che partecipassero alla ricerca avevano ben chiaro che stavano vivendo un’esperienza di finzione. I carcerieri, magari amici dei detenuti nel Campus dove studiavano insieme, erano diventati veri e propri torturatori e la violenza stava degenerando realmente.
Da questa famosa ricerca Zimbardo trasse una conclusione che poi applicò a diverse situazioni (tra le quali il più recente scandalo dei soldati americani che torturarono e seviziarono i prigionieri nel carcere di Abu Ghraib), ovvero che una persona, se costretta a vivere in un ambiente violento alla fine, anche contro la sua volontà, si adatta a quei luoghi e agisce la stessa la violenza tipica del ruolo che sta rivestendo.
Ariaferma, presentato a Venezia nella sezione “Fuori concorso”, racconta di un carcere abbastanza isolato in una località montana non specificata, che sta per essere chiuso. Tutti i detenuti sono stati trasferiti in altre carceri. Per un problema organizzativo però 12 detenuti, insieme agli ispettori di Polizia e alle guardie carcerarie, sono costretti a rimanere ancora qualche giorno nel carcere in attesa di sviluppi. I 12 detenuti vengono spostati nella parte centrale, la rotonda, per essere meglio controllati dagli agenti di Polizia Giudiziaria.
In una sorta di guardie ladri, esattamente come nell’esperimento di Stanford, sono obbligati a convivere 24 ore al giorno.
La tensione, fin da subito, è molto alta; ai prigionieri sono state tolte tutte le attività, comprese le visite dei familiari. E’ una situazione straordinaria, anche la direttrice è stata trasferita e il comando è passato all’ispettore Gaetano Gargiulo (Tony Servillo) che comprende piano piano che sarà nelle sue mani una decisione fondamentale: rispettare rigidamente i ruoli e le regole carcerarie oppure accogliere alcune richieste dei detenuti contro il regolamento e gli ordini della direttrice?
Tutto parte dal fatto che la cucina è stata chiusa e il “vitto” arriva tramite un catering esterno evidentemente molto scadente. I detenuti, capeggiati da Carmine Lagioia (Silvio Orlando), iniziano uno sciopero della fame. Carmine, figlio di un proprietario di una trattoria di Napoli, chiede di poter cucinare per tutti. Tra gli attori troviamo anche Salvatore Striano un ex pregiudicato che nel carcere ha iniziato a frequentare corsi di recitazione, tra le partecipazioni più importanti quella nel bellissimo film dei fratelli Taviani: “Cesare deve morire” dove ha interpretato Bruto.
Hannah Arendt, ricorderete, a proposito dei campi d concentramento, parlava di “Banalità del male”, ovvero dell’idea che una persona trovandosi in una situazione violenta, non può fare altro che obbedire agli ordini, senza chiedersi se questi sono giusti, umani, oppure no.
In questo film il regista, al suo terzo lungometraggio, ci consegna una risposta differente, ovvero che tutti noi abbiamo sempre la possibilità di scegliere, una libertà che possiamo decidere o meno di esercitare. Possiamo decidere di non nasconderci dietro al ruolo o agli ordini superiori, anche se questo potrebbe avere un prezzo molto elevato.
Questa libertà è certamente più rischiosa, Gargiulo lo sa bene, come lo sanno molto bene i suoi colleghi, ma nel film, le sue decisioni si trasformano in un atto rivoluzionario che permetterà di scorgere un’umanità altrimenti invisibile in tutte quelle persone che hanno vissuto una vita sempre ai margini della società.
C’è una scena bellissima, molto poetica, nel film. Un vecchio detenuto, Arzano, ormai prossimo alla follia, un detenuto isolato dagli altri perché sta scontando una pena per abusi sessuali, una notte si fa la pipì addosso. Nessuno sarebbe disposto ad aiutare una persona così, ma un giovane ragazzo si offre volontario e lo cambia, mettendogli degli abiti puliti. Anche questo è un gesto di libertà che rompe lo schema della banalità del male.
Il film gioca molto sulla dimensione, tutta italiana, del cibo come collante, forse a tratti anche un po’ retorico, però, a guardare bene, sempre molto vero.
La cucina e la tavola sono luoghi relazionali per eccellenza (a volte anche luoghi come diceva una mia paziente “delle peggio intossicate”), ricordo quando lavoravo in una comunità terapeutica dell’importanza di mangiare tutti insieme, pazienti e operatori, e lo stesso cibo, un momento che spesso si trasformava in intimità, in un desiderio di condividere qualcosa di sé.
La psicologia lo sa molto bene che il pregiudizio distrugge l’umanità che tutti noi possediamo, se trattiamo una persona partendo da quello che ha fatto nella sua vita allora non potrà mai emergere nulla di nuovo. Ariaferma è un bel film che racconta proprio di questa umanità, cercando di rispettare la vera regola fondamentale, direi Costituzionale, ovvero che il carcere deve sempre avere una funzione riabilitativa anche per il peggior delinquente al mondo. Poi magari una persona è libera di non voler cambiare nulla della propria vita, ma lo Stato ha il dovere di provarci, magari anche con una buona pasta alla genovese.
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