Atlantide (Italia, Francia, USA, Qatar, 2021). Regia, soggetto e sceneggiatura, montaggio: Yuri Ancarani. Fotografia: Yuri Ancarani e Mauro Chiarello Ciardo. Interpreti principali: Daniele Barison, Maila Dabalà, Bianka Berenyi, Jacopo Torcellan, Alberto Tedesco
Venezia è anche un sogno, di quelli che puoi comperare
Però non ti puoi risvegliare con l’acqua alla gola
E un dolore a livello del mareFrancesco Guccini, Venezia, 1981
Poche città al mondo sono state raccontate al cinema al pari di Venezia. Luogo magico da sognare, quinta avvolgente dove allocare il disfacimento di un amore, o ancora paradigma (attualissimo) del conflitto tra avere ed essere, è una città in grado di rappresentare, amplificandole, le sfumature delle nostre esistenze. Allargando però il campo ad esplorare la laguna, la più grande d’Europa, di cui Venezia è l’epicentro, si scopre un macrocosmo affascinante e sconosciuto ai più. In questo mondo periferico si sofferma, quasi in uno studio etnografico, la macchina da presa di Yuri Ancarani, che adottando la metodologia dell’osservazione partecipante si è immerso, con i ritmi delle stagioni, per 4 anni all’interno di un gruppo di ragazzi di Sant’Erasmo – per grandezza la seconda isola della laguna – filmandone le giornate. Ci troviamo in laguna nord, fuori dalle rotte delle grandi navi, un regno di mezzo dove è possibile sfrecciare a velocità altissime con i propri barchini, oggetti di culto e feticci come un tempo lo erano le Vespe, con motori da elaborare, eliche da cambiare, luci stroboscopiche da montare.
Non sappiamo se l’occhio del regista, per il solo fatto di essere tra loro, abbia modificato riti e miti del gruppo osservato, né è importante dare conto di una trama perché, a dispetto dei crediti sopra riportati, una sceneggiatura vera e propria non esiste. Ci sono momenti, flussi di coscienza, dialoghi in presa diretta, incastonati l’uno sull’altro senza un filo narrativo; personaggi che compaiono per poi perdersi, sguardi d’insieme e subito dopo repentine zoomate. Collage di immagini in movimento che favoriscono l’allentamento dei pensieri, un approccio psicodislettico in cui lo stato di coscienza viene alterato da immagini che abbandonano i corpi e slittano sulle sensazioni.

Il culto del barchino e della musica techno sparata a volume altissimo, come sparati volano gli scafi sulle acque placide della laguna superando di dieci volte il limite di velocità consentito, attestano l’esistenza di un mondo giovane e privo di timone, che pulsa al di là di gondole, locazioni turistiche e caffè concerto in Piazza San Marco; gli amori masticati e digeriti in poco tempo volteggiano sulla superficie dell’acqua, sopra le macchie di carburante che la punteggiano, i tuffi dagli imbarcaderi e i pomeriggi fatti di canne e musica ed estate che scorre lontana dal centro città.

E’ un flusso di coscienza in cui ogni immagine intende consegnare una sensazione, e ogni dialogo cancellarla: la lunghissima sequenza finale, con una camera montata sulla prua del barchino e inclinata di 90 gradi rispetto all’asse del galleggiamento, restituisce una città piegata su un fianco, come questi ragazzi dalle dinamiche monodimensionali, ritratti nell’unica postura che la regia ha inteso rilevare.
Presentato l’anno scorso alla Mostra del Cinema di Venezia, psichedelico come le musiche che lo accompagnano, è un oggetto artistico difficilmente catalogabile come cinema, ammesso che le etichette servano a qualcosa fuori dai canali di distribuzione. La sensazione che emerge dopo la visione è quella di un grande lavoro in cui le superfici narrate – la laguna e i ragazzi che la abitano – sono state esplorate con differenti gradi di profondità: la prima nella sua dimensione più metafisica, ipnotica, con tonalità policrome, prospettive ribaltate e innovative; i secondi, carne e sangue della storia, con un cromatismo espressivo pressoché monotonale; come se non fossero in grado di essere altro rispetto a ciò che il regista ha saputo cogliere nelle sue quattro estati di frequentazione.
Cinema-verità o video-arte che sia, risulta di sicuro interesse come ogni esperimento in grado di riscrivere gli stilemi di una narrazione; ma appare anche un’occasione non colta, quella di integrare due dimensioni che rimangono distanti, come se il vuoto esistenziale documentato in questo gruppo di ragazzi potesse essere solamente sublimato attraverso esperimenti visivi, e non affrontato con la fatica della parola, indagando le dimensioni che si nascondono dietro i riti del gruppo.
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