Avevo vent’anni…
Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita
Paul Nizan, Aden Arabia, 1931
Avere vent’anni (Italia, 1978). Regia: Fernando Di Leo. Interpreti principali: Gloria Guida, Lilli Carati, Ray Lovelock, Vincenzo Crocitti, Giorgio Bracardi, Leopoldo Mastelloni, Vittorio Caprioli, Daniela Doria, Licinia Lentini, Daniele Vargas, Sara Bennato.
Lia e Tina sono due ventenni “giovani, belle e incazzate”, come amano ripetere durante il film. Si conoscono su una spiaggia e partono all’esplorazione del mondo in autostop. Finiranno a Roma, all’interno di una comune gestita da un mezzo santone che si fa chiamare il Nazariota, cercheranno di guadagnare qualcosa con la vendita di enciclopedie a domicilio, sperimenteranno l’amore libero e vivranno in prima persona la frattura tra il mondo dei figli dei fiori, in cui tutto ancora sembrava possibile, ed il successivo riflusso, dove terrorismo, droghe pesanti e perdita di ogni illusione fecero strage di una generazione. Dopo che la polizia ha rinvenuto delle sostanze all’interno della comune, sono costrette a firmare un foglio di via per tornare ai loro paesi. Ma durante una sosta sulla strada del ritorno faranno un brutto incontro che le porterà alla morte.
Come fecero in quegli anni Bertolucci (con Tognazzi ne La tragedia di un uomo ridicolo) e Monicelli (con Sordi ne Un borghese piccolo piccolo), anche Di Leo scelse due protagoniste conosciute fino a quel momento come icone sexy per catapultarle all’interno di una storia drammatica, scollegandole quindi dal proprio ruolo per inserirle all’interno di una narrazione più articolata. I cascami del 68 erano ancora visibili, la realizzazione personale non era orientata alla carriera e al potere, ma a una ricerca individuale che potesse dare un senso al proprio mondo. Così nella comune, che occupa la parte centrale del film, convivono giovani che fanno della dipendenza il loro appiglio ed altri che lo cercano nella trascendenza, abbandonando ogni forma di attaccamento ai simboli terreni.
Lia e Tina vivono il loro viaggio tra autostop, lavori saltuari, incontri occasionali e voglia di vivere i loro vent’anni, e lo fanno andando al massimo, senza riflettere sulle conseguenze delle loro azioni.

Nel 1978 era ancora inimmaginabile la rete con i suoi infiniti mondi virtuali per poter esplorare il proibito, accarezzare il rischio e buttarcisi dentro legati a una corda da bungee jumping, nella consapevolezza che un semplice clic sarebbe bastato a farsi risucchiare sul parallelepipedo nero della tastiera sparendo dal monitor.
Mancava una sperimentazione mediata dal computer, e questo offriva sensazioni più vere, carnali, sudate, ma anche rischi più tangibili, con vie di fuga sempre più ristrette.
Il risultato finale della pellicola non fu all’altezza delle intenzioni della sceneggiatura: luoghi comuni, personaggi monodimensionali se non macchiettistici, dialoghi pecorecci, scene di sesso auto ed eterodiretto, e l’immancabile intermezzo del meta cinema che tanto andava all’epoca. Ma rileggendo in controluce la vicenda, emerge un elemento che fa da trait d’union tra il mondo di ieri e la sua proiezione odierna: la vita della donna trova un limite fondamentale nell’esercizio della propria libertà di scelta. Laddove intende esercitarla senza vincoli personali o sociali, l’uomo la blocca confinandola nel ruolo ancillare o, peggio, di oggetto sessuale, ruolo da cui non si è ancora completamente liberata.
Il film circola, semiclandestino, in due versioni: quella originale, con un finale violentissimo che, a detta del regista, ne ha decretato il parziale insuccesso. E quella rimontata per le sale, depurata dall’incontro iniziale sulla spiaggia, dalla scena saffica e dal finale cupo. Come se la morte per mano del branco, un’orda di uomini preda della brama di potere e sopraffazione prima che del proprio desiderio, fosse un elemento di cui non si poteva ancora parlare.
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