Balloon (Titolo Originale Qiqiu – Il palloncino. Cina, 2019). Regia: Pema Tseden. Interpreti principali: Sonam Wangmo, Jinpa, Yangshik Tso, Dechen Yagzom.

Su una prateria dell’altopiano tibetano due bambini giocano con dei palloncini trasparenti, che la camera utilizza come filtri per rimandare sullo schermo immagini sfumate: un uomo anziano seduto su una pietra, il figlio che arriva su una moto scalcinata, ed entrambi riconoscono che ormai le due ruote hanno soppiantato i cavalli. Ma i palloncini sono dei condom forniti ai genitori dalla clinica di Stato, e il padre dei due bambini si affretta a bucarli promettendo però di regalarglieli nuovi appena andrà in città.

Drolkar e Dargye hanno tre figli e una vita dura di pastori. Quando lei rimane nuovamente incinta la dottoressa fa di tutto per convincerla ad abortire: non sono più i tempi in cui una donna vive solo per mettere al mondo dei figli. Senza contare che la legge cinese sul figlio unico li avrebbe costretti a pagare una multa che non si possono proprio permettere. Ma un lama, visitato subito dopo la morte del nonno, profetizza che il defunto si sarebbe presto reincarnato all’interno della famiglia. E il marito di Drolkar vuole a tutti i costi il bambino che sta per arrivare: in questo modo potrà nuovamente avere il padre accanto a sé.

L’invasione cinese del Tibet e le sue conseguenze rimangono sullo sfondo, così come tutto ciò che di quel popolo ci ha raccontato finora il cinema, a partire da “Sette anni in Tibet”. La politica domina le scene e guida le scelte dei popoli, imposte o subite. Ma è l’unica lente con cui osservare il fluire dei giorni? E dopo che è passata cosa rimane? Pastori che passano le serate a parlare attorno a una stufa, in una casa a 4000 metri dove vivono insieme tre generazioni, hanno tempo e forze per pre-occuparsi anche di occuparsi di altro? Chi sono queste persone? Chi le vede? Chi le racconta? E se nessuno le racconta, esistono veramente o sono soltanto numeri e statistiche? Che valore ha dare anima e voce a queste vite, che arrivano da noi su una pellicola?

Pema Tseden, scrittore e regista cinese di origine tibetana, ci conduce in un territorio di confine con una storia molto prossima a quella raccontata molto tempo prima da Sofocle: conta più la legge che si sono dati gli uomini o la legge naturale, quella di Dio? Seppellire Polinice, come vorrebbe la sorella Antigone e come è naturale che accada per onorare i morti, o lasciare le sue spoglie mortali ai cani e agli uccelli, come vorrebbe Creonte per punirlo di aver rivolto le armi contro Tebe?

La legge degli uomini vuole che il figlio non nasca: la legge dello Stato ma anche quella del denaro, che non basterebbe più per mandare a scuola il primogenito. Ma la legge di Dio, della tradizione, del pensiero che trascende tutto ciò che è terreno, spinge verso quella nascita che non è altro che un eterno ritorno. Né la Grecia del 450 a.c. né la Cina di oggi hanno una risposta, ma solo la stessa domanda, rinnovata nelle modalità ma invariata nella sostanza. Nei fondali di una natura potente, disegnata con toni freddi in contrasto con il calore degli interni, i protagonisti si raccontano soprattutto attraverso questi dubbi, cui non riescono a dare una risposta definitiva. La camera li riprende in dialoghi in cui sono separati da un albero, dal vetro di una finestra, da una pozzanghera che riflette il cielo, da una porta, dal tubo di una stufa. C’è tra loro la stessa distanza che esiste tra la vita e la morte: uno scarto minimo, in attesa che si ripeta il ciclo continuo di morti e rinascite nel sottile confine dato dai 49 giorni che, secondo il buddismo tibetano, separano l’anima del defunto dalla sua possibile reincarnazione.

In questo insieme di natura e cultura, la famiglia di Drolkar e Dargye cerca un proprio equilibrio, fatto di sogni da realizzare e promesse da mantenere. Un film lento, armonioso, recitato con l’impronta della quotidianità e il peso dei doveri che gravano come zaini strapieni sulla schiena dei protagonisti.