Banu (Azerbaigian, Italia, Francia, Iran, 2022). Regia: Tahmina Rafaella. Interpreti principali: Tahmina Rafaella, Melek Abbaszadeh, Zaur Shafiyev, Jafar Hasan, Kabira Hashimli, Emin Asgarov
Banu ha lasciato il tetto coniugale ed è tornata a vivere con la madre, separandosi dal marito Jarid e portando con sé il figlio Ruslan. Tra qualche giorno il giudice dovrà pronunciarsi sull’affidamento del minore, ma il padre ha appena portato via con sé Ruslan, sottraendolo alla madre. Il film si apre sul primo piano di Banu che, in un commissariato di polizia, denuncia la sottrazione del minore. L’agente la sconsiglia di proseguire con la denuncia: in fin dei conti non sono ancora separati legalmente e quindi non può considerarsi un rapimento; e la guerra che contrappone l’Azerbaigian all’Armenia per il controllo della regione del Karabach è certo una questione di maggior rilievo.
Banu adesso si muove sullo sfondo della capitale Baku, cercando su consiglio del proprio avvocato di trovare persone che possano testimoniare che è una buona madre; ma la famiglia del marito è troppo potente e tutte le donne cui chiede aiuto le rispondono negativamente. Mentre si susseguono gli incontri, il Paese è scosso dalla guerra che si respira con il coprifuoco, i cori patriottici, i murales per le strade, e tracima dai notiziari, insieme al rullo che riporta l’elenco dei caduti.

La violenza della guerra, raccontata e immaginata, gonfiata dalla propaganda patriottica, fa da contrappunto alla violenza che ha subito Banu in passato, e che emerge lentamente nel corso del racconto. Una violenza di genere, tra maschio padrone e femmina sottomessa; ma anche di censo, per lo sbilanciamento di potere che separa le due famiglie e che sembra non lasciare scampo a Banu mentre il processo si avvicina.
Prodotto con il contributo di Biennale College Cinema, che investe sul cinema indipendente delle cinematografie minori, seguendo il progetto dai primi workshop alla fase della produzione, il film segue con la camera la protagonista e tutte le sensazioni, gli stati d’animo, le difficoltà che deve affrontare nel combattere una battaglia che sembra persa in partenza. Anche se Banu ha lasciato buoni ricordi di sé nei luoghi in cui ha lavorato, e nelle persone a cui chiede un aiuto, ognuna di queste ha troppo da perdere per potersi esporre in tribunale. Sarà proprio la guerra, che uccide gli uomini e confina le donne nell’unico ruolo di madre e sorella di un martire, ad offrirle una possibilità insperata.

Banu è un’esperta di origami, e in questa arte fatta di pazienza e di leggerezza trova un modo di esprimere al figlio il proprio amore, e alla madre le parole che non ha saputo dire in precedenza, nel timore costante del giudizio. Una pausa di silenzio in una città di propaganda bellica, rabbia repressa, e un nemico contro cui coalizzarsi. Il passaggio tra la storia di questa donna e la Storia del Paese è un flusso continuo, e rivela le modulazioni che può assumere la violenza collettiva e quella all’interno di una coppia. Il figlio le chiede di parlare azero, mentre Banu parla russo, “perché il papà mi ha detto che l’azero è la lingua dei patrioti”. Ma si può essere patrioti in molti modi: magari anche parlando la lingua di un ex nemico come l’impero Sovietico, provando tutte le strade per cercare un dialogo, prima che la violenza prenda il sopravvento.
La protagonista, che è anche regista e sceneggiatrice, dimostra come un buon soggetto, sviluppato con buone idee e una drammaturgia lineare, possa diventare un film in grado di offrire molti spunti di riflessione anche senza dover contare su particolari artifici tecnici, solo con la potenza della storia.
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