Regia di Alejandro G. Iñárritu presentato in concorso per Venezia 79
“È tutto ok, stai solo morendo” (Inland Empire – David Lynch)
Inizio dal titolo, provando a dire qualcosa sul Bardo. Nel “Libro tibetano dei morti”, un testo sacro che, come dice il titolo, Thödol, significa “suprema liberazione tramite l’ascolto”, si parla del Bardo. È uno stato di sospensione della mente, dell’anima diremmo noi occidentali, che dura diversi giorni dopo la morte. Bardo letteralmente significa “intervallo tra due istanti” e indica non solo lo stato tra la morte e la successiva rinascita, ma anche lo stato del sogno, di meditazione o di veglia. Per i tibetani la mente è sempre “tra due istanti”, in perpetuo passaggio da uno stato all’altro, da un’esperienza all’altra.
Grazie a questa breve introduzione forse diventa più chiaro anche la seconda parte del titolo del film di Iñárritu: falsa cronaca di poche verità. Il protagonista del film, Silverio Gama, è un famoso giornalista/documentarista che ritorna in Messico con la famiglia in occasione di un premio conferito negli Stati Uniti al giornalismo di qualità. Questa è l’occasione per rivivere e raccontare tutta la sua vita in uno stato di sospensione, così come potremmo viverlo, senza scomodare i morti, quando sogniamo, dove gli elementi onirici sono un miscuglio di verità e finzione.

Fin qui tutto bene, sta solo sognando…
Ma il film di Iñárritu, a mio avviso, ha due grandi limiti.
Il primo, la decisione di mettere nella storia tutto, ma proprio tutti i temi della sua vita a partire dal trauma del figlioletto morto subito dopo la nascita, il suo rapporto con il Messico, con i vecchi amici, i sensi di colpa per essere emigrato negli Stati Uniti, il rapporto con i figli, la moglie, con i genitori, il suo essere intellettuale che si è però allontanato dalla sua gente, con la storia del Messico, con tutte le atrocità subite dal popolo azteco e molto altro ancora. Le immagini di alcune scene sono veramente potenti, bellissime, ma è come un piatto con dei buoni ingrediente ma pieno di tanta roba, il rischio è l’indigestione, considerando anche la durata: 3 ore piene!
Capisco il senso, del resto è il momento della verità, del giudizio, è il momento in cui l’anima fa i conti con la propria storia. Al cospetto di Dio (interno o esterno che sia) bisogna dire tutto, senza riserve. Ma il pubblico non è Dio!
Il secondo limite, e su questo dopo citerò Fellini con il suo capolavoro “8 e mezzo”, è che a mio avviso Iñárritu ha costruito un film non personale ma autoreferenziale, parla a se stesso, agli amici, ai familiari a tutti quelli che hanno avuto il piacere di conoscerlo, magari anche alla sua gente, ai messicani, non parla al pubblico. Le scene, anche molto lunghe, fra tutte quella della Festa in onore di Silverio, rischiano di essere racconti che solo chi l’ha vissute può apprezzarne in pieno il senso.
So bene che in una recensione non è carino fare paragoni con altri film, ma è lo stesso Iñárritu che ha dichiarato il suo grande legame con Fellini e per il suo “8 e mezzo”.
E allora che Fellini sia. ..
C’è una scena molto simile nei due film, l’incontro con il padre. Iñárritu lo rappresenta in un bagno pubblico, parlano della loro relazione, di ciò che ha potuto fare il padre per lui, il protagonista si rimpicciolisce, come Alice nel paese delle meraviglie, mantenendo il viso adulto, una specie di nano. L’ho trovata molto didascalica, forse un tantino semplicistica rispetto alla maestosa scena di Fellini, nella quale il protagonista Guido Anselmi (Marcello Mastroianni) incontra i genitori in un cimitero, ed è qui che emergono tutti i suoi fantasmi, i suoi sensi di colpa, le sue inadeguatezze, c’è una potenza espressiva che parla direttamente al nostro inconscio, insomma tutta un’altra storia!
Jung ha descritto un inconscio individuale e un inconscio collettivo, direi che Fellini ha saputo attingere a quello collettivo, Iñárritu questa volta solo a quello individuale.
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