Barry Lyndon (Usa, Uk, 1975). Regia: Stanley Kubrick. Interpreti principali: Ryan O’neal, Marisa Berenson, Patrick Magee, Hardy Kruger, Steven Berkoff, Gay Hamilton.

Da qualche tempo mi chiedo perché film che ho amato moltissimo, rivisti dopo tanti anni, scorrono sotto i miei occhi indifferenti. Mentre altri continuano a stupirmi come se fosse la prima volta. La risposta che mi sono dato ha a che fare con lo sguardo: tranne i rarissimi casi di remix o di spezzoni inseriti ex novo, la pellicola è sempre la stessa.

E’ lo sguardo dello spettatore a cambiare.

Siamo cambiati noi, è cambiato il mondo che ci circonda, e il nostro modo di rapportarci verso ciò che abbiamo di fronte non è più lo stesso. Ricordavo Barry Lyndon con piacere, come un grande film in costume che, malgrado le tre ore di durata, mi aveva coinvolto moltissimo. Non restava molto oltre questo: solo una vaga sensazione positiva, la conferma del talento di un maestro del cinema, e un quieto desiderio di vederlo ancora.

Complice la suggestione di un cinema sotto le stelle ho rivissuto così la storia di Redmond Barry, irlandese di bell’aspetto e di piglio focoso, e la sua parabola umana. Nato da umili origini, una serie di coincidenze ne costruiscono prima la fortuna e poi la rovina. Sia quando viene rapinato lungo la via, sia quando viene scoperto come disertore e costretto a scegliere tra la corte marziale e l’arruolamento in un esercito straniero, sia sotto le palle di cannone durante la battaglia, riesce sempre a cavarsela.

Tratta da un romanzo e ambientata nella seconda metà del XVIII secolo, durante la guerra dei sette anni, la vicenda si snoda attraverso suoni e immagini di grande suggestione, fin dalla sarabanda della suite n. 4 in re minore di Haendel (https://www.youtube.com/watch?v=zUuK-FwEPGw) che apre il film sui titoli di testa. Tutte le componenti della pellicola sono curatissime, dalla fotografia che illumina con la luce naturale delle candele le scene in interni, all’interpretazione di tutti i personaggi, ai costumi, ai dialoghi.

Tutte a servizio di un progetto grandioso, scritto diretto e prodotta da Kubrick, che intendeva raccontare un uomo del quale, fin dalla prima scena, era già chiaro il destino. L’evoluzione del protagonista infatti attraversa solo il suo mondo esteriore: cambiano i compagni di viaggio, le donne al suo fianco, il mestiere, i denari a disposizione. Ma lui rimane lo stesso uomo generoso, attaccabrighe, insofferente alla disciplina, sbruffone, affascinante e incapace di calcolo che aveva abbandonato il villaggio natio per aver sfidato a duello un ufficiale inglese a causa di una donna.

Le scelte di Redmond sono figlie naturali del suo carattere, prive di qualsiasi mediazione, e il suo sentiero è un susseguirsi di svolte che non lo conducono mai in un vicolo cieco, anche quando apparentemente non sembra esserci scampo. Non si può nemmeno dire che sia un antesignano del concetto (oggi abusato) di resilienza: non c’è riflessione, pensiero critico o giudizio etico, ma solo un incedere che nessuno, nemmeno lui, può fermare.  

Kubrick lo espone mirabilmente nella scena ripresa da una carrellata che segue l’avanzare dell’esercito inglese verso una compagnia di artiglieri francesi appostata su un dosso: i francesi sparano e gli inglesi delle prime file cadono come birilli colpiti da una palla da bowling. Le seconde file sopravanzano e vengono di nuovo colpite. Gli uomini vanno avanti lo stesso: come nella carica dei seicento a Balaklava, come nella scena iniziale di Orizzonti di gloria, vanno avanti sapendo il destino che li aspetta e non si ritraggono. Non possono fare altro. Non sanno fare altro.

Così Redmond Barry che, sposandola, assume il cognome di Lady Lyndon, non riesce a mettere mano alla sua vita per riassestarla su un piano meno inclinato, nemmeno quando gli nasce un figlio amatissimo, le sue giornate trascorrono in un castello e vive di rendita. Come se la spinta iniziale, data da una madre vedova che aveva puntato tutto su di lui, fosse impossibile da fermare.  Il matrimonio presto sfiorisce in piccoli tradimenti senza amore, il denaro della moglie viene sperperato e l’odio del figliastro nei suoi confronti alimentato giorno dopo giorno dai suoi scoppi d’ira.

Cosa resta di noi, dopo tutto questo affanno? Le conquiste, i lutti, l’amore che muore e l’odio che morde piano le relazioni? La voce fuori campo che racconta, a volte anticipandola, la vicenda, non accompagna i sentimenti come quella dei film di Truffaut, scrutando dietro i gesti dei personaggi le loro intenzioni.

Ma piuttosto ne trascrive con parole la latitanza, senza giudicare: come una risacca che riconduce l’acqua invariabilmente in mare.