Blonde (USA, 2022). Regia: Andrew Dominik. Interpreti principali: Ana de Armas, Adrien Brody, Bobby Cannavale, Julianne Nicholson, Sara Paxton, Xavier Samuel, Caspar Phillipson
Per l’ennesima rivisitazione del mito americano produzione e regia hanno scelto di puntare su tinte forti, comunque ben dentro margini che consentano la massima fruibilità: niente di sperimentale, e una dose parca di trasgressione, per un prodotto costruito a tavolino con ingredienti calibrati come in un buon piano di marketing. Ma potrebbe essere qualcosa di diverso, oggi, un film prodotto da Plan B entertainment e distribuito da Netflix?
Norma Jeane è una bambina bellissima ma la madre la considera un peso, dal momento che è a causa sua che l’uomo che amava è scappato. La madre la mena appena può, tenta di affogarla nella vasca da bagno, le rinfaccia di continuo di esistere. E quando perde del tutto il controllo e deve essere ricoverata in un struttura psichiatrica, la bambina finisce in un orfanotrofio. Skippata di brutto la parte relativa al matrimonio giovanile e i primi approcci al mondo del cinema, ritroviamo Norma Jeane a subire colpi da tergo sul sofà del produttore, e subito dopo in un ménage à trois, didascalicamente definito dai protagonisti threesome, con i figli d’arte di Charlie Chaplin e di Edward G. Robinson.
Ma se il sesso vende, il transfert non è da meno. Allora Marylin, la cui madre non avrebbe voluto portare a termine la gravidanza, subisce ben tre aborti (di cui uno spontaneo), evidenziati da un feto che sembra uscito dalla scena finale di 2001. Così come invece l’orgasmo di Mr. President Kennedy (al culmine di una fellatio in cui Marylin dice a se stessa “Che ci faccio qui?” manco fosse Chatwin) è un tributo al talento visionario di Gerard Damiano, che sottolineava gli orgasmi di Linda Lovelace in Gola profonda con il contrappunto di razzi spaziali.

Intendiamoci, va benissimo giocare con il cinema nel cinema, soprattutto quando la citazione appare pertinente. Altrettanto interessante è il florilegio di diversi formati di ripresa (ben 4, ad allargare e restringere lo schermo; 1:1, 1.37:1, 1.85:1, 2.39:1); il passaggio dal colore, che racconta Norma Jeane, al bianco e nero, con il quale si segue invece il personaggio Marylin; il taglio di luci, curatissimo nel rappresentare il distacco tra la protagonista e il fondale indistinto che funge da quinta di ogni sua rappresentazione; le bocche oscene dei maschi che la desiderano dopo che il vento della metro le ha sollevato la gonna, e lo speculum che dilata la vagina in uno degli aborti.

Ci sono tante possibili declinazioni di cinema: overacting, i padri assenti, maschio predatore sessuale, protagonista che legge Čechov senza che nessuno le creda, dunque invisibile come persona ma sovresposta come icona.
Nelle quasi tre ore di film manca uno scatto in avanti: come una catena di ristoranti, con formulari di ricette perfezionati dai quali non ci si può discostare, Hollywood offre al consumatore ciò che vuole, educandolo al contempo a non aspettarsi nulla di nuovo. Ci vorrebbe una trattoria a conduzione familiare, un cuoco estroso capace di sperimentare nuove ricette, accostamenti diversi per nuove letture di ingredienti stranoti.
La sceneggiatura, scritta dallo stesso regista sulla base del libro di Joyce Carol Oates, punta i riflettori sulla Marylin privata, desiderata da tutti ma amata da nessuno. Forse solo Arthur Miller, cui Adrien Brody offre un tratto dolente e malinconico, ha saputo amarla per ciò che era, senza tuttavia riuscire a tenerla per sé. Il resto del mondo maschile la vede come un pezzo di carne, buono per fare sesso o soldi: due categorie merceologiche che rappresentano la stella polare di molti uomini, due topoi cinematografici che non possono mancare quando l’obiettivo è sbancare i botteghini.
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