Torniamo a parlare di distopia e lo facciamo con un capolavoro di disformismo futuristico: Brazil, di Terry Gilliam, 1985.

Rispetto alle pellicole sorelle distopiche, Brazil inverte in un certo senso l’idea di distopia del controllo che ci eravamo fatti finora.

A creare l’aridità psicologica dell’esistenza umana è un punto di partenza totalmente opposto rispetto a quello di cui oggi diciamo di aver bisogno: Ordine. In uno scenario mondiale in cui a dominare sembra essere il caos sotto ogni punto di vista (sociale, economico, educativo, amministrativo, politico, sanitario etc), quello che spaventa non è tanto essere fagocitati da una confusione cosmica a cui apparentemente vorremmo fuggire ma al contrario di trasformarci in vittime sacrificali di un ordine che schematizza la nostra esistenza all’interno di regole prefabbricate.

In Brazil, Gilliam presenta infatti uno spazio tempo scandito da schemi e ordine imposto ad esistenze private di emozione, di piacere, di amore nel senso più puro del termine, amore per la vita, per la curiosità delle cose. Un atteggiamento di triste rassegnazione in cui l’identità psichica viene non solo soffocata ma anche e soprattutto negata così come ogni possibilità di individuazione. L’essere umano sembra essere vittima di uno schiacciante potere categorico, in cui la diversità di pensiero o il pensiero stesso nel suo palesarsi viene considerato un capriccio, una cellula tumorale da espellere affinché il sistema possa continuare ad esistere nella sua deformata perfezione.

In Brasil troviamo un unico dittatore apparente che si rivela essere la burocrazia. Essa infatti assume il potere totalitario di un capo di stato che si autoelegge tale, senza considerazione alcuna per la soggettività intrinseca dell’essere umano.

mSam Lowry, il protagonista, ci viene presentato come ingranaggio tristemente inserito in uno spazio grigio di cui la stessa pellicola si colora. Ma ha una personale (dove personale assume un significato simbolico fondamentale), via di fuga: il sogno. Grazie al sogno infatti Sam riesce ad evadere la prigione della geometria intorpida – menti in cui il regista inserisce i personaggi. Sam si immerge completamente nella sua dimensione onirica, come a cercare la salvezza negli inferi di un inconscio che egli non sara’ mai abbastanza equipaggiato per affrontare senza soccombere.

Interessante dal punto di vista simbolico come per non affogare Sam debba rifugiarsi nel sogno, strategia di cui l’inconscio stesso si nutre per comunicare con il nostro io dormiente. La sensazionale contraddizione che emerge qui sta proprio nel desiderio simbolico di Sam di restare a galla, di non annegare inondato da una realtà che anestetizza e ipnotizza ogni emozione umana. E per farlo si deve a sua volta immergere, discendere gli inferi di un inconscio che nella sua dimensione collettiva vede nell’acqua una simbologia fondamentale. Navigare per le acque dell’inconscio si rivela una scelta molto pericolosa senza protezione, perché esso ci trascinerebbe negli abissi più profondi dai quali riemergere sarebbe impossibile.

Eppure Sam preferisce immergersi senza protezione alcuna nella dimensione onirica all’interno della quale avviene la sua stessa trasformazione: egli infatti si veste di un mantello e creando l’antitesi di se stesso vola dall’amata che ha visto solo in sogno. Ne ha quindi costruito un’immagine idealizzata, che risponda in tutto e per tutto a quello che per il protagonista rappresenta l’idea di perfezione. Una Vergine Maria da amare, una fantasia da possedere mantenendo l’originale purezza creatrice di un desiderio senza peccato.

Una realtà insopportabile che trova riparo solo in una vita irreale, immaginata partecipando al processo di straniamento e disorientamento dell’individuo che non riesce a sostenere un ordine di realtà che incatena in uno spazio da confini decisi a tavolino.

Poi un giorno ecco comparire la donna dei suoi sogni, Jill Layton. La sosia reale di una donna immaginaria che sam ama da sempre. Questo provoca nello spettatore stesso una confusione surreale, sogno e realtà sono collegati da una donna, un femminile che si impone sulla scena come ipotetica risolutrice, come potenza creativa, eros allo stato puro che risveglia i sensi e incendia d’emozione un animo ingrigito, tetro, ghiacciato, impenetrabile.

Un mondo che si impone sul protagonista schematizzando e catalogando ogni istinto, ogni passione e agito privandolo del valore esistenziale intrinseco alla vita stessa. Un mondo che inizialmente sembra capovolgersi, con l’entrata in scena dell’elemento femminile che ahimè qui soccombe ad un ambulatorio di vita asettico e irreversibilmente sterile.

Nulla puo infatti la donna inserendosi in questo contesto, che appesantisce di continue ed innegabili rinunce e obblighi che allontano dalla volontà, dal libero arbitrio sacrosanto di ogni essere umano.

Il mondo meccanico vince in un finale tanto cruento quanto necessario all’accettazione della vita stessa. Sam viene lobotomizzato diventando lo schiavo dei suoi stessi sogni, del suo stesso tentativo di evasione. Demone del suo stesso mondo in cui si trasforma in galeotto dei suoi incubi che si impossessano di lui, lo possiedono in un vortice tumultuoso e mortale di deformate proiezioni.

Nessun lieto fine purtroppo, solo verità spogliata di ogni componente positiva. Resta una pellicola da vedere, anche solo per prendere coscienza di quello che ci rende umani e di quanto anche le nostre emozioni negative, il dolore, la sofferenza ci rendano umani e vadano quindi non solo accolte ma a volte addirittura cercate.