Call Jane e la storia una società che pensava di essere libera
“Rendere illegale la decisione di una donna di abortire ma non saper proteggere i bambini nati”.
“Come possiamo fidarci di un Paese che nega la libertà di scelta a prescindere dalle motivazioni e permette atrocità come queste”.
“Quei bambini si sono alzati la mattina, hanno fatto colazione, hanno fatto il doppio nodo alle scarpe e sono andati a scuola. A scuola. Come si può pensare di obbligare una donna a portare avanti una gravidanza se poi la società non è in grado di proteggere i bambini”.
Potremmo riportare infiniti esempi di indignazione, sconforto, rabbia, paura, dolore, letteralmente tradotti, dopo l’ennesima sparatoria in una scuola in Texas.
Eterna diatriba, quella delle armi negli Stati Uniti.
Eterna diatriba, quella di concedere in tutti gli Stati Uniti la libertà di scegliere se interrompere o meno una gravidanza.
Ora, sebbene le due questioni sembrino apparentemente ricoprire due ruoli diversi, l’opinione pubblica americana le ha cucite insieme nel tentativo di dimostrare ancora una volta le contraddizioni che per definizione muovono un Paese come quello a stelle e strisce.
Vorrei solo accennare all’incredibile influenza che ha l’opinione pubblica americana sull’ago della bilancia delle decisioni procrastinate, dimenticate o mascherate da tanto preoccupanti quanto improbabili: “E’ ora di fare qualcosa al riguardo”.
Ed è proprio da questa opinione pubblica divampante, che si muove come farebbero delle fiamme su di un terreno a cui è stata prosciugata fino all’ultima goccia d’acqua, che è balenata l’idea di questo articolo.
Armi e Aborto. Omicidio e scelte.
C’è chi ha messo sullo stesso piano la scelta di un sociopatico a cui un sistema compromesso concede il possesso di una pistola e la scelta di una donna di terminare una gravidanza per qualsiasi motivazione quest’ultima ritenesse importante per lei.
Ora, verrebbe da pensare che un sistema bigotto e schiavo delle lobby delle armi sia forse il solo responsabile di atrocità come sparare su dei bambini ed impedire ad una donna di non metterne al mondo. Va da sé però, che è un tratto preoccupante dell’essere umano quello di scaricare la responsabilità su di un sistema. Non c’è, è invisibile, è un’entità di cui nella maggior parte dei casi non sappiamo nemmeno le componenti. Proviamo un certo senso di liberazione nel gridare: “E’ un sistema malato”!, per poi tornare nel nostro guscio e non chiederci se di questo sistema non siamo forse un po’ tutti complici. Perché se è in questo sistema che viviamo, probabilmente rispecchia in maniera brutale quello che siamo come società.
Call Jane, film del 2022 presentato al Sundance è ambientato negli Stati Uniti degli anni ’60. Diretto da un’immensa Phyllis Nagy’s, rappresenta questo tipo di società in maniera ecclatante.
Che sia ambientato alla fine degli anni ’60 è un fattore che arricchisce la pellicola di consapevolezza civile stimolando delle riflessioni impeccabili rispetto alla società contemporanea.
Ispirato al movimento “Jane Collective” che all’epoca contava circa 12.000 donne in prima linea per fornire sostegno psicologico e cure mediche a chi decideva di interrompere la gravidanza quando ancora nella maggior parte degli Stati Uniti era illegale.
La protagonista (Joy), incarna la tipica figura della casalinga borghese apparentemente soddisfatta. Finché non scopre di essere incinta per la seconda volta e che la gravidanza mette a rischio la sua stessa vita.
In un susseguirsi di immagini in perfetto equilibrio fra dramma e leggerezza, assistiamo al percorso ma soprattutto all’evoluzione di una donna che si vede negati i suoi diritti anche in una situazione estremamente delicata come quella in cui si trova.
Si renderà conto man mano che quello che le è sempre stato imposto non corrisponde alla realtà, che c’è una guerra da combattere ogni giorno: l’ignoranza. La cieca violenza ai danni di menti sopraffatte da sensi di colpa e dolore.
La pellicola ci regala un ritratto della società sfacciatamente contemporaneo e lo fa lasciando parlare i corpi delle donne, il loro cambiamento e il loro linguaggio seppur tanto diverso con un’incredibile capacità di espressione e comprensione.
Consigliatissimo, anche per comprendere che forse il vero cambiamento può davvero solo partire da noi, che di questo “sistema malato” siamo parte integrante. Che abbiamo tutti, nel nostro piccolo, un enorme potere di cambiamento. La possibilità e la necessità della maturazione di una coscienza civile così come di riconoscere il valore civile degli eventi.
La nostra protagonista decide di vedere. Vede gli “incidenti domestici” a cui le donne ricorrono per poter abortire legalmente. Vede gli orrori di una società che spinge più facilmente alla violenza che alla possibilità di scegliere. Vede che senza amore non esiste evoluzione. Vede tutti quei figli delle violenze, nati in contesti e situazioni al limite crescere e diventare così arrabbiati da raggiungere un punto di non ritorno. Da diventare “i cattivi”. Coloro che in società non sanno, non vogliono e non possono stare.
Una carrellata di immagini drammatiche, magistralmente guidate, come fosse un balletto classico, da regista e attori.
Da vedere, considerando anche tutto quello a cui stiamo assistendo.
Lo si può trovare su Prime.
Forse il cambiamento nasce anche da queste piccole grandi finestre su questo tanto millantato nemico “sistema”.
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