Castaway On The Moon (Titolo Originale: Kimssi Pyoryugi, Corea Del Sud, 2009). Regia: Lee Hae-Jun. Interpreti principali: Jung Jae-Young, Jung Ryeo-Won.
Un uomo economicamente rovinato e abbandonato dalla fidanzata si butta da un ponte di Seul e precipita nel fiume Han. Ma il suicidio non riesce, ed approda su un’isola disabitata attraversata dai piloni di un ponte. Una ragazza vive reclusa nella sua stanza da tre anni, parlando con la madre solo attraverso la porta. E’ una hikikomori che passa le giornate davanti allo schermo del computer, dove vive un’esistenza virtuale sotto sembianze di altre ragazze per nascondere la sua piccola imperfezione. Seul, la capitale, è fuori dalla finestra e al di là del fiume.

L’uomo non sa nuotare e non riesce a chiamare soccorso: lentamente inizia a convivere con la sua nuova condizione di naufrago, cercando di catturare del pesce, ricavando un rifugio, utilizzando la spazzatura di cui è piena l’isola per ricavare gli strumenti della sua quotidianità. Anche la stanza della ragazza è piena di spazzatura, accumulata lungo una parete: ma la sua routine le impedisce di lasciarsi andare: nel suo piccolo spazio fa attività fisica, mangia stando attenta alle calorie, e la sera fotografa la luna che poi stampa e appende alla parete.

Lentamente inizieranno a dialogare con modalità surreali: lei vedendolo dalla lente della sua reflex gli recapiterà messaggi in bottiglie, uscendo di notte protetta da un casco integrale; lui, immaginandola dentro uno dei palazzi che si affacciano sul fiume, le scriverà messaggi sulla sabbia. Il primo, HELP, si trasformerà in HELLO, e la comunicazione tra loro continuerà con modalità disarcionate dalla realtà.
Sono due fughe dal mondo differenti che finiscono per inciampare l’una nell’altra. Una papera in vetroresina finita sull’isola è il giaciglio delle notti dell’uomo, che con il tempo impara a convivere con la sua nuova diversità: non più espulso dal mondo del consumo, stritolato da cravattari invisibili, ma padrone delle proprie scelte, anche se sono solo quelle di trovare il cibo per sopravvivere. La ragazza invece abbandona lentamente il mondo virtuale per assestarsi davanti al suo obiettivo e conoscere il mistero buffo del naufrago. Entrambi hanno un progetto, appena abbozzato ma chiaro: dare un senso diverso alle proprie esistenze, riscattare un fallimento che sembrava ineluttabile, sforzandosi in qualcosa che non avevano mai fatto prima. E lo fanno, procedendo per prove ed errori, ma andando sempre avanti.

La poetica di Lee Hae-jun, anche sceneggiatore, ricorda quella di Jaco Van Dormael: leggera, musicale, venata di malinconia, sullo sfondo un mondo impassibile da colorare con gesti delicati che appartengono solo ai suoi protagonisti. Gli scarti di una società votata alla diade produzione-consumo sono presenze mute di ogni scena: giocattoli, confezioni, tessere magnetiche, bottiglie di plastica. Ma in questa storia assumono funzioni nuove, utili a sopravvivere, a mangiare, a favorire una fuga in avanti: come la carta di credito che, avendo perso sull’isola la sua funzione originaria, è tuttavia utile a raschiare il guano degli uccelli dalle pareti della papera per poi piantarlo nella terra insieme ai semi che contiene.
La società ipertecnologica cede il passo alla costruzione quotidiana di una possibilità nuova, di un incontro con se stessi che consente di avvicinare l’altro. Più che una storia d’amore è la narrazione di un incontro, un ritrovarsi consentito proprio dalla frattura delle proprie abitudini che avevano isolato questi due mondi.

Da una parte l’iperconnessione dell’uomo in carriera, improvvisamente scaraventato in un mondo senza più device e costretto a misurarsi con una parte di sé sconosciuta; dall’altra il timore di entrare in contatto con gli altri, se non protetta da protesi (un teleobiettivo, un messaggio in bottiglia, un casco) che forniscono insieme connessione e distanza.
Scopriranno che per venirsi incontro (e soprattutto per incontrare se stessi) non occorre uno scarto completo rispetto al passato, ma un nuovo sguardo: più aperto, venato di fantasia, votato ad accogliere il rischio che l’altro/a possa essere una delusione.
Un viaggio che inizia, ma non è dato sapere come potrà procedere.
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