Caveman – Il Gigante Nascosto regia di Tommaso Landucci (2021). Presentato all’ultima Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Giornate degli Autori, il film uscirà nelle sale italiane giovedì 17 Febbraio 2022.
“Caveman – Il Gigante Nascosto” di Tommaso Landucci è un film documentario che richiede immaginazione. Tutto è appena accennato, lo spettatore è come se stesse quasi vedendo una serie di foto, non ritoccate, ma proprio per questo coinvolgenti e commoventi, che fanno conoscere da vicino l’arte, la creatività, gli amori ondivaghi, la paternità sofferta, la malattia terminale, lo spirito, di Filippo Dobrilla. Un mosaico di momenti e attimi, in un avanti e indietro temporale, che offrono un ritratto intimo di questo artista toscano che ha rischiato di rimanere sconosciuto al grande pubblico.
Grande pregio del film è quello di non essere né agiografico, né di essere pensato come un modo per rendere un eroe una figura, quella del Dobrilla, che è dotato di fatto, oltre che di talento, di una smisurata passione eroica. Come definire altrimenti, se non un eroe, un uomo che per 30 anni con costanza, dedizione, amore, energia, si inoltra ben 650 metri dentro una grotta delle Alpi Apuane per portare a compimento la sua opera di un gigante dormiente nel ventre della Terra? Eppure ciò non accade.
Senza idealizzare Dobrilla, il film trasmette invece la progressiva sensazione di essere trascinati con delicatezza dentro l’esperienza stessa dell’artista, come se uno divenisse sempre più un osservatore partecipante che accompagna lo scultore fin dentro le profondità della montagna.
Quasi in automatico vedendo Caveman una domanda nasce spontanea: perché fare un’opera d’arte del genere in un luogo dove non potrà vederla nessuno? Dobrilla stesso durante il film fornisce una risposta, ovvero il desiderio di fuggire da mondi che possono imprigionare, ma questa risposta non convince del tutto. In qualche modo suona riduttiva. Dobrilla abitava già isolato su un monte, per questo il suo rapporto strettissimo con la caverna non pare legato ad un’ulteriore necessità di fuggire. Deve esserci qualcosa di più.

Tutto, ogni cosa anche nella sua abitazione e nel suo modo di vivere, è tensione verso il passato, non tuttavia per semplice nostalgia, bensì per rispondere ad un’esigenza interiore di rinnovamento.
Dobrilla pare animato da uno spirito creativo che potremmo definire junghiano. Il grande psicologo analista svizzero Carl Gustav Jung era solito passare vari mesi dell’anno a Bollingen, paesino piccolissimo sul lago di Zurigo, in una casa-torre che aveva costruito in parte da sé. Per settimane rinunciava all’elettricità e ad altre comode modernità per stare maggiormente in contatto con la Natura, per tornare ad essere “l’antichissimo figlio della madre”. A Bollingen Jung era completamente sé stesso, immerso nel silenzio e dentro una vita semplice riusciva a dare forma compiuta alle sue geniali intuizioni psicologiche.
Essere semplice – riteneva – è la cosa più difficile, perché essere semplici vuol dire creare un momento di Vuoto che possa sia lasciare spazio all’Altro per eccellenza dentro di noi, l’inconscio, sia preludere allo sgorgare della creatività. La Caverna per Dobrilla deve aver svolto un ruolo simile. Non una fuga quindi, piuttosto un ripiegare introverso su di sé per premessa di un furore creativo.
Naturalmente nessuno può sapere con certezza cosa accadesse a Dobrilla nel suo lungo sostare in caverna, tuttavia a noi piace immaginarlo come un moderno alchimista intento ad estrarre lo spirito, l’uomo nuovo e rinnovato, dalla materia. Detto per inciso, dovesse essere verosimile l’ipotesi che Dobrilla stesse cercando un rinnovamento di sé dentro la caverna, ovvero che stesse cercando di crescere da un punto di vista personale e artistico, può essere interessante soffermarsi a notare come tale ricerca creativa e spirituale lo conducesse in basso e non in alto: con tale movimento psichico verso la profondità, e discostandosi così molto da quelli che sono i canoni collettivi abituali, egli fornisce a tutti noi un’occasione per riflettere sul modo con cui tendiamo ad immaginare il processo di crescita psicologica.
Durante il lungometraggio lo scultore toscano racconta cha da bambino gli pareva strano che le statue fossero ferme e che non parlassero, ed in effetti da adulto è come se gli avessero parlato. Una bella storia cinese, che si trova negli scritti di Chuang Tze, narra di un falegname che sapeva costruire campane così belle da lasciare stupefatti tutti coloro che le guardavano. Interrogato sul come facesse a tirarle fuori dal legno, rispondeva sempre che lui non era altro che un normalissimo falegname senza metodo: passava solo tre giorni di ascesi senza pensare a lodi e ricompense, poi ne faceva trascorrere altri due per non pensare più a critiche e/o complimenti, poi dimenticava di avere un corpo e solo allora cominciava a guardare gli alberi. Ad un certo punto sentiva una perfetta corrispondenza tra la sua natura e quella dell’albero, e solo in quel momento iniziava la campana.
Questo aneddoto cinese per dire che nei grandi creativi è il materiale a parlare all’artista, nella storia cinese è l’albero a chiamare il falegname, in Dobrilla, che si presentava sempre come un agricoltore-allevatore, deve essere stata la “voce” della Caverna e della Pietra a chiamarlo.

Jung sostiene che l’avere una relazione psicologica intensa con un oggetto finisce con l’ingravidare l’oggetto stesso, rendendolo un’immagine animata che in un certo senso gode di vita propria. Definì tale metodo immaginazione attiva, ed era un modo per trovare un dialogo e una sintesi simbolica tra coscienza e inconscio. Dobrilla con tutta probabilità si è trovato a dialogare con il suo gigante e si può essere ragionevolmente certi che questo in qualche modo deve aver reso la sua vita più piena e degna di essere vissuta. Un vero peccato che sia stata così breve.
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