“La coscienza è uno strumento di precisione di una sensibilità estrema”

Changeling, tratto da una storia vera, partorito dall’eterno genio senza confini di realtà che è Clint Eastwood. Il film esce nel 2008, presentato al Festival di Cannes. Porta alla luce gli avvenimenti realmente accaduti nella Los Angeles del 1928. Una donna, Christine, interpretata da un’emozionata ed emozionante Angelina Jolie si trova a combattere contro la polizia del tempo, focolaio distruttivo di corruzione e abuso di potere. 

La vita scorre lenta e tranquilla nella vita di periferia di Christine e suo figlio Walter di nove anni fino a quando un giorno, rincasata dal lavoro, la donna scopre che il figlio è sparito. Consumata dalla disperazione e dal senso di colpa Christine si rivolge alla polizia per denunciarne la scomparsa. In un alienante susseguirsi delle giornate (la carrellata dura pochi minuti, ma lo spettatore sentirà di vivere ogni ora di ogni giorno con la stessa angoscia della donna), la Christine riceverà una telefonata, 5 mesi dopo la scomparsa del figlio, in cui la polizia dichiara di averlo trovato.

Ma nel vederlo scendere dal treno, Christine realizza immediatamente che quel bambino non è suo figlio. Da questo momento in poi la pellicola prende forma su di una serie di contesti deliranti. Da una parte un corpo di polizia corrotto, che pur di non ammettere l’errore taccia la donna di paranoia e infermità mentale (tanto che dopo aver provato a convincerla che quel bambino è suo figlio senza successo, la farà ricoverare in un ospedale psichiatrico). Dall’altro un sistema marcio, consumato dall’interno, masticato da un mastodontico senso di onnipotenza che offusca e ridefinisce i confini della legalità e della morale stessa.

Una storia sulla forza inesprimibile di una madre che con l’aiuto di un reverendo combatterà quel gigante malefico, un corpo di polizia scabro e morente, tenuto in vita solo da menzogne che ne deformano la struttura stessa. 

Ma cosa può convincere una donna, anche solo per un istante, che un altro bambino sia effettivamente suo figlio?

Perché oltre ad un film sulla speranza, sulla forza combattiva di una madre e sulla denuncia sociale di un’epoca di cui ancora subiamo gli strascichi, questo è uno spunto di incredibile e fondamentale riflessione circa gli aspetti della nostra psiche. Quello che desideriamo, può essere così devastante da imporci una visione irreale della realtà?

Si. Si chiama sospensione dell’incredulità ed è ciò che è avvenuto a Christine, ma che avviene, in maniera anche estremamente ridotta ad ognuno di noi, nella nostra più o meno indaffarata quotidianità.

In noi avviene una scissione: ci credo ma non ci credo, in soldoni. Si tratta dell’abbandono ad un’illusione. Può durare un istante o tutto il tempo che necessita la nostra psiche per riprendere contatto con il principio di realtà e per lasciar andare il desiderio invasore e saccheggiatore di verità. Il “risveglio” avviene nel momento in cui tracciamo lo sconfinamento dell’irreale con il reale. Il fantomatico “schiaffo morale”, quella scossa che ci strappa alle radici strangolanti di una mente desiderosa e ci riporta qui, ora, con quello che siamo e quello che vediamo. Ci riporta quindi alle emozioni sensoriali reali, quelle visive e sonore, per esempio. 

In Christine avviene l’imposizione della cosiddetta quasi-illusione che si instaura anche più facilmente se le circostanze esterne collaborano alla creazione di quest’illusione. Nel caso in questione, Christine si racconta che sono passati mesi senza vedere il bambino, che potrebbe essere cambiato nel tempo, che il suo sequestratore potrebbe averlo maltrattato e quindi adesso è “normale” che non lo riconosca. Accade quando desideriamo così ardentemente che qualcosa si avveri o sia reale che ci nutriamo di circostanze illusorie confermanti una tesi irreale. Assistiamo ad un’elaborazione inconscia della donna, un estremo e disperato tentativo di voler credere che sia così. Così Christine si sottomette all’illusione perché il dolore di accettare che quello non sia suo figlio è un macigno che da sola non è pronta a sostenere. 

Inoltre, nel film è egregiamente rappresentato l’effetto ipnotico della pressione sociale che agevola molto la restituzione plausibile della realtà. Tutti intorno alla donna le fanno credere che sia lei a sbagliare, tanto da indurla a pensare di essere impazzita. La fusione del desiderio di aver trovato il figlio e la pressione sociale che si chiude a tenaglia su di una donna guidata esclusivamente da angoscia e dolore, provoca il collasso del principio di realtà.

Ma è proprio l’accettazione di quel dolore a permettere alla psiche di rientrare, di riprendere il contatto con la verità delle cose. La struttura della psiche infatti deve riflettere la realtà della coscienza e non quella del sogno. 

La nostra mente risponde anche alla rappresentazione di percezioni passate di cui abbiamo memoria (ricostruite più o meno fedelmente) e alla descrizione delle manipolazioni che permettono tali rappresentazioni.

Film assolutamente consigliato. Dopotutto, la nostra stessa mente si compone di due elementi fondamentali: il film nel nostro cervello e il sé. Ed è quello che in versione ridotta avviene a tutti noi, quando andiamo al cinema.