Cronaca familiare (Italia, 1962). Regia: Valerio Zurlini. Interpreti principali: Marcello Mastroianni, Jaques Perrin, Sylvie, Salvo Randone, Marco Guglielmi, Valeria Ciangottini, Miranda Campa.
Alla notizia della morte del fratello, ricevuta al telefono in una sala stampa disadorna alla fine della guerra, Enrico si chiude nel silenzio e ritorna con la mente alla trama che ha incrociato negli anni il loro rapporto.

Il fratello, più giovane di otto anni, alla nascita venne chiamato Dino; la madre morì di parto e il piccolo venne dato in affido a una ricca famiglia fiorentina che gli cambiò il nome in Lorenzo, più elegante, e poi cresciuto dal loro maggiordomo tra agi e privilegi. Enrico stava con la nonna materna, sapendo di questo fratello che però non vedeva, e al quale lo legava un rapporto di amore e odio: forse imputato alla morte della madre, di cui lo considerava responsabile, forse alla sorte che gli aveva offerto una strada più facile.
Si ritrovano a Firenze quando Lorenzo ha 18 anni, una sera che Enrico lo ospita nella propria casa dove tutto esprime miseria. Si parlano, provano a conoscersi e raccontarsi. Non è facile, dopo anni di lontananza. Lorenzo racconta della propria famiglia adottiva caduta in disgrazia, una condizione per lui nuova e che lo coglie impreparato. Chiede al fratello maggiore chi era la loro madre. Enrico studia le lingue al lume di una candela, vuole fare il giornalista, ha dentro un fuoco che non è di riscatto sociale, ma una sete di vita che fatica ad esprimere con le parole. Compresso, introverso, misurato, mai un’esplosione di rabbia contro un fratello così sconosciuto eppure in qualche modo simile a lui.
La loro relazione continuerà come un’ellissi che sempre ritorna allo stesso punto, attraversando strade nuove e incrociando altre persone: l’unico punto fermo è la loro nonna, creatura dolcissima che unirà le loro mani stringendole nelle sue. Fin dall’inizio è Lorenzo a tossire, la tubercolosi dovuta probabilmente alla miseria dell’ambiente in cui vive lo sta minando. Ma dopo due anni di sanatorio torna alla vita e inizia a lavorare a Roma in un giornale. La malattia che coglie Lorenzo invece è repentina, invisibile, lo scosta dalla tovaglia della vita con un gesto ordinario, come si raccoglie una briciola di pane a metà di un pranzo, quasi senza attenzione. Le differenze sociali di partenza, le diffidenze reciproche, la diversa attitudine a mordere – o a lasciar scorrere – la propria vita, saranno annullate in un lento processo di conoscenza reciproca fino alla morte di Lorenzo.

Come nel giovanile “Le ragazze di San Frediano”, Zurlini si ispira a un altro romanzo di Pratolini per un film più maturo, in cui la morte aleggia silente fin dall’inizio. La complessità del rapporto tra i due fratelli viene esplorata lungo silenzi alternati a frammenti di dialogo. Attraverso sguardi che scavano con delicatezza negli abissi della coscienza, amore e morte sempre presenti, un’attitudine alla vita che è curiosità per ciò che non si potrà avere, o che si sfiora solo da lontano.

Zurlini amava la pittura, che in ogni suo film appare come una firma indelebile. Le sue inquadrature assemblano un gioco di volumi e contorni nitidi, mettendo lentamente a fuoco la strada di due fratelli che si cercano senza mai davvero trovarsi.
Molte sono riduzioni su celluloide di dipinti di Ottone Rosai, cantore della toscanità e della viandanza umana, mirabilmente tratteggiate dalla fotografia di Giuseppe Rotunno.

Non è mal di vivere, ma una solerte incapacità ad accompagnare la vita lungo le strade che la rendono possibile. L’incontro c’è, ma non è mai pieno, intenso. Solo sussurrato, in un misto di rispetto per l’altro e timore di sé.
Come se affrontare i propri fantasmi dovesse comportare, in caso di sconfitta, la fine di ogni possibilità.
Enrico accompagnerà Lorenzo nel suo calvario tra ospedali e case di cura, litigherà coi medici che crede responsabili, farà di tutto per proteggerlo: con questa energia vitale riscatterà, insieme, la remissività di Enrico e i propri fallimenti personali. Lo farà portare a Firenze per un’ultima volta, ma resterà a Roma per non vederlo nel momento del passaggio, e tenerlo con sé da vivo, per il tempo che gli sarà ancora dato.
Oggi un film del genere sarebbe impossibile da girare, forse anche da vedere senza mettere mano a un device. Non c’è azione, né un intreccio complesso, né un colpevole in cui riconoscersi o dal quale fuggire. Solo povertà, silenzi, interni, riprese statiche. E’ forse il film più pittorico che abbia incontrato, sia nella fuga degli acciottolati di Firenze che nelle inquadrature d’insieme dove la luce cade dall’alto a cogliere un gesto o un silenzio.
Perché abbiamo perso il gusto di queste tonalità pastello? Perché le evidenze narrative devono essere squadernate e non sussurrate, i toni accendersi di vigore e assertività, l’eleganza dei dettagli sussurrare come un sottofondo la propria presenza costante? Come se chi a guarda restasse poco spazio per immaginare quel che non si vede.
Ha forse ragione Galimberti quando scrive che sono gli artisti a raccontare meglio di ogni altro le profondità dell’animo umano. Valerio Zurlini lo sapeva, e attraverso l’arte che così profondamente amava (come Truffaut la letteratura, Visconti il teatro, Tarantino il fumetto) è riuscito a raccontare una storia dove succede poco o nulla e a farla sedimentare dentro di noi come un fiore che darà i propri frutti quando verrà il tempo, e saremo preparati a coglierli.
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