Riassumendo il tuo giudizio su di me ne emerge che non mi rimproveri qualcosa di davvero sconveniente o malvagio, ma freddezza, distanza, ingratitudine. E me lo rimproveri come se fosse colpa mia. Se io potessi portarti a riconoscere il contrario allora sarebbe possibile non una cessazione, ma almeno una attenuazione dei tuoi incessanti rimproveri. (F. Kafka – Lettera al padre)

Per comprendere l’importanza degli aspetti psicologici contenuti nella pellicola più autentica del regista visionario Tim Burton, è necessario partire dalla genesi della figura stessa di Edward Mani di forbice. 

Non tutti sanno infatti che questo goffo e malinconico personaggio nacque proprio nella mente di un Tim Burton ancora bambino alle prese con la dura realtà di quel “confronto con gli altri” caratterizzato dal disagio e dalla paura di non essere accettato. 

In questa prospettiva è possibile cogliere la brillante metafora delle mani taglienti, che rappresentano da una parte, l’incapacità di relazionarsi con gli altri secondo forme ritenute accettabili dalla società (Edward ferisce chiunque gli si avvicini), e dall’altra, il senso di colpa per il fatto di essere la causa di questa incapacità relazionale (Edward ferisce anche sé stesso con quelle lame).

Ma l’aspetto veramente degno di nota è il fatto che quelle stesse mani, che incarnano, per Edward, l’origine di ogni male, rappresentano allo stesso tempo la sua reale natura, e in particolar modo, la sua capacità creativa; e proprio in questo elemento troviamo il messaggio più importante del film: quella capacità creativa, che rende l’artista un individuo unico e del tutto particolare, è anche ciò che lo rende un “diverso” e che lo costringe ad allontanare gli altri e a fuggire dalle relazioni. 

Il rischio, prospettato dalla pellicola, è quello di ritrovarsi condannato da una società che non riesce a comprendere i gesti, e le intenzioni dell’artista. 

Il rischio è che l’artista si chiuda in un oscuro castello (metafora della patologia mentale), ormai distaccato dai legami affettivi (la fuga dalla città), comunicando con l’esterno soltanto in maniera indiretta e di riflesso attraverso la propria arte, divenuta ormai, allo stesso tempo, causa del proprio dolore e sollievo dalle sofferenze, in un circolo vizioso senza fine.