Ambientato sulla costa dell’Inghilterra meridionale nell’autunno-inverno dei primissimi anni ‘80, Empire of Light, il dramma intimo di Sam Mendes, attualmente al cinema, narra la storia di Hilary (Olivia Colman), vicedirettrice di un cinema sbiadito che si rifiuta di guardare i film e viene manipolata per fare sesso da parte del burbero capo, il signor Ellis (Colin Firth). La sua quotidianità fatta di duro lavoro e di avances subdole, viene stravolta dall’arrivo del giovane e brillante collega Stephen (Micheal Ward). 

Due spiriti affini, ostracizzati dal mondo, s’intrecciano in un bellissimo piano in disuso di un cinema dall’atmosfera magica: da una parte Hilary cerca di affrontare la sua malattia mentale, accennata all’inizio e che trova uno spazio più esteso man mano che la narrazione si sviluppa, e dall’altra Stephen, tenta di affrontare il razzismo dilagante che ha messo in pericolo i giovani come lui in una Gran Bretagna che si dirige verso il thatcherismo. 

Mendes decide di utilizzare la metafora di un volatile ferito per descrivere lo stato emotivo iniziale dei due personaggi: entrambi feriti a modo loro, bisognosi di cure e desiderosi di libertà. I loro incontri avvengono principalmente nel suggestivo atrio abbandonato dell’Empire Cinema che assume le sembianze di un mondo parallelo, polveroso e disordinato ma più gentile e comprensivo di quanto lo sia la realtà là fuori. L’intento del regista sembra essere quello di fare luce su problematiche ancora incredibilmente attuali e tuttora irrisolte, quali la malattia mentale e il razzismo, proponendo la sua idea di cura.

Nel film emerge, infatti, il desiderio di aiutare gli altri in difficoltà, a tratti mettendo da parte il disagio personale ed è proprio questa la chiave per la salvezza reciproca.

Batson avanzò l’ipotesi dell’empatia-altruismo (1991), affermando che quando proviamo empatia per una persona, la aiuteremo per ragioni puramente altruistiche senza alcuna preoccupazione per il guadagno personale. Tale teoria trova corrispondenza in tutte le scene in cui Hilary incoraggia, sostiene e soccorre Stephen, anche scegliendo di allontanarlo per non metterlo nei guai nella straziante scena in cui polizia e assistente sociale irrompono nel suo appartamento per trascinarla con la forza in ospedale per il ricovero forzato.

Quando Hilary svanisce nella sua malattia, causata dall’abbandono repentino della terapia farmacologica, la storia assume gradualmente la prospettiva di Stephen che sogna di fare l’architetto in un paese respingente. Mentre mette insieme i pezzi della sua vita, ritrovando equilibrio in una nuova relazione, rincontra Hilary che, ormai dimessa dall’ospedale, è pronta a tornare nel suo cinema. Entrambi imparano a riconnettersi nonostante le loro differenze e ciò che emerge è un grande affetto reciproco. 

La Colman, nel ruolo più impegnativo del film, mostra ancora una volta la sua straordinaria bravura nell’indossare i panni di un personaggio estremamente delicato da preparare. Hilary è una persona complessa e, mentre la sua depressione la attanaglia, sale su un ottovolante emotivo. L’attrice la ritrae con cura e sensibilità dando vita a una performance formidabile, colma di umanità e simpatia.

Il film è caratterizzato da una evidente eleganza, accentuata dalla colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross. La struttura della sceneggiatura, interamente scritta dal regista, scorre da una sottotrama all’altra, da un protagonista all’altro, rendendo il ritmo complessivamente piacevole. 

Non soltanto Steven Spielberg con The Fablemans, anche Sam Mendes scrive una lettera d’amore al cinema, dando voce al testardo e devoto proiezionista dell’Empire Cinema: “Sono solo fotogrammi statici”, riflette, “con l’oscurità in mezzo… un’illusione di movimento. Un’illusione di vita”. È quell’analogia tra i fotogrammi statici ma in movimento della pellicola e le vite statiche ma in movimento dei suoi personaggi che rende Empire of Light un toccante tributo, non solo all’esistenza ma al valore intramontabile del cinema.