Era El Cielo (titolo originale O Silêncio do Céu, Brasile, 2016). Regia: Marco Dutra. Interpreti principali: Leonardo Sbaraglia, Carolina Dieckmann, Chino Darìn, Alvaro Armand Ugon, Mirella Pascual, Roberto Suàrez
L’incipit è potente, uno stupro che la camera a mano riesce a narrare attraverso gli occhi della protagonista lasciando fuori il suo corpo martoriato. Si sente il rumore secco di strappi, si intravede un coltello, e come ombre le sagome dei due uomini che stanno abusando di lei. Senza rifletterci un attimo, la mente corre a una delle scene dell’assalto al ponte de “Salvate il soldato Ryan”, quando in una casa bombardata il ragazzino che non ha mai imbracciato un’arma assiste impotente, senza essere visto, alla lotta all’ultimo sangue tra un suo commilitone e un soldato tedesco, che alla fine avrà la meglio. Nel suo sguardo c’è impotenza, disprezzo di sé, incapacità di agire, una forza invisibile che lo tiene inchiodato al muro.
Così Mario, che rientra prima del dovuto e assiste alla violenza su Diana, la moglie, senza mettere in atto alcuna reazione. Vediamo infatti nuovamente la stessa scena: i rumori, l’affanno, la stanza, il cielo sono gli stessi. Diversi gli occhi che guardano, stavolta. Sono quelli del marito che rimane come di sale, preoccupato di non far rumore per non farsi scoprire. Quando tutto è finito lei gli telefona chiedendo di passare a prendere i bambini a scuola: della violenza subita non farà parola per tutto il film.

Dal primo piano narrativo iniziale la sceneggiatura lentamente si apre sul mondo di questa coppia di quarantenni agiati: lei è brasiliana e lavora in un atelier di moda, lui uruguagio e autore televisivo in piena crisi creativa. Hanno due bambini che li sfiorano in una quotidianità felice, ma solo recentemente marito e moglie sono tornati a vivere assieme dopo due anni di separazione. Una voce fuoricampo racconta le fobie di Mario: paura di volare, della violenza, della malattia, del traffico, dell’essere abbandonato, tutte lo paralizzano e gli restituiscono l’immagine di un uomo a metà, capace di vivere soprattutto attraverso i personaggi che (de)scrive nel suo lavoro. Ma è convinto che il suo modo di essere non possa bastare a Diana, alimentare il loro amore, e così decide di diventare uno dei suoi personaggi: un uomo che non teme l’azione, la violenza e, alla fine, la vendetta di cui va in cerca in modo ossessivo e imprudente per tutto il film.
La storia, attraversando gli spazi luminosi di un vivaio e il bisogno di Mario di riscattare la propria fragilità, racconterà come finisce la sua corsa, e cosa è successo a Diana in quei due anni di lontananza, prima che lui tornasse e lei lo accogliesse nuovamente a casa.

Girata in una Montevideo di cieli ampi e luci decise, con le strade colorate di alberi e il Rio de la Plata sullo sfondo, la vicenda esplora la sete di vendetta di Mario attraverso la lente deformante delle sue paure. Potrebbe essere il suo bisogno di riscatto, diventare finalmente ciò che non è mai stato, incapace di accogliere la propria natura di uomo mite; oppure la rappresentazione di un machismo tutto sudamericano, vendicando la sua donna, che però nulla gli ha chiesto se non, a suo modo, di dimenticare. Se posso scegliere, leggo soprattutto nel suo viso, nella piccole attenzioni mai banali, nella cura dei figli, nel suo lavoro di sceneggiatore, un uomo tranquillo che sceglie una strada incognita per timore di perdere la sua donna e non un maschio alfa che decide, per lei e per sé, il destino da tracciare.
L’equilibrio tra i pensieri raccontati dalla voce fuori campo, il dipanarsi dei giorni e la lenta scoperta del loro passato, accompagnato dalle metafore di piante e cielo, appare a tratti macchinoso ma mai didascalico. La domanda che rimane sullo scorrere dei titoli di coda è come sia possibile un passaggio così netto tra la paura di muoversi e l’urgenza di agire, tra il calcolare ogni conseguenza e fregarsene del futuro, tra l’amore per il proprio nido e la distruzione di quelli altrui. Una frattura forse troppo profonda per essere composta con lo strumento della ragione.

Straordinari ed intensi i protagonisti, che lasciano sulla superficie della loro vita di famiglia ordinaria le tinte pastello dei ritmi quotidiani per confinare nel buio della notte le loro paure più profonde, lavate solo temporaneamente dall’acqua di una doccia. Finale sospeso ed enigmatico, senza una vera risposta; forse perché nessuno, tra i due, ha mai provato a fare all’altro una semplice domanda.
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