Un ritratto di Mario Mieli, tra i fondatori di Fuori! (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano)

Conta i tuoi giorni maschio padrone perché noi faremo rivoluzione
Fuori dai ghetti omosessuale affila le unghie contro il patriarcale
Fila la norma fila il tuo ruolo illuditi ancora di esser normale
Così facendo non farai altro che fare il gioco del capitale
Conta le ore maschio padrone perché noi facciamo rivoluzione
Tutti i devianti scesero in piazza ad ammazzare la norma pazza
(sulle note di “Fila la lana” di Fabrizio De André)

Gli anni amari (Italia, 2018). Regia: Andrea Adriatico. Interpreti principali: Nicola Di Benedetto, Sandra Ceccarelli, Antonio Catania, Lorenzo Balducci, Tobia De Angelis, Francesco Martino, Grazia Varesani

Se le etichette fossero realmente capaci di definire un tipo di cinema, facendolo rientrare all’interno di coordinate precise, potremmo dire che il genere dei biopic (contrazione di biographical picture) corre sovente il rischio dell’agiografia.

Il protagonista viene osservato dal suo lato migliore, i suoi peccati vengono emendati, le sue cadute diventano trampolini per la riscossa e i tradimenti nei confronti dei compagni di strada un tratto ineludibile di una personalità altrimenti eccezionale. Le sfumature raramente conquistano il primo piano: la missione del protagonista è quella di eccellere nel mondo di cui fa parte (sport, musica, cinema, pittura, più di rado politica e letteratura), e dopo mille peripezie il traguardo sarà raggiunto.

La prima cosa che sorprende ne “Gli anni amari” è dunque la frantumazione di queste linee guida: il protagonista non segue un percorso, pur irto di ostacoli, verso un traguardo predefinito. Ma ne prova molti, sbanda, si ferma, ricomincia, cambia compagni di strada, combatte battaglie che sente già saranno perdute eppure lo fa perché l’urgenza che sente dentro di sé è più potente di ogni calcolo personale. Il protagonista non è un perdente – a proposito di etichette – in quanto omosessuale che vive un’epoca in cui i generi sono ancorati a ruoli sociali e culturali sedimentati. Lo è in quanto combatte una battaglia che anticipa di troppi decenni prese di coscienza e capacità di riflessione che sarebbero emerse molto più avanti. Come scrisse in modo icastico Stanislaw Jerzy Lec, “Molti che avevano preceduto il proprio tempo, hanno poi dovuto aspettarlo in locali piuttosto scomodi”.

Mario Mieli, la cui storia è raccontata dal film, è stato un pioniere. Penultimo dei sette figli di una famiglia borghese (il padre Walter era industriale della seta, la madre Liderica insegnante di lingue), fin dal liceo a Milano illustrava la propria differenza affermando di chiamarsi Maria e vestendosi da donna. Fu tra i fondatori del Fuori! (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) da cui si distaccò ben presto.

Laureato in filosofia morale con una tesi pubblicata da Einaudi, passava dalle teorie di genere alla coprofagia, dall’antipsichiatrica al libero amore, dall’alchimia alla promiscuità e all’uso delle droghe. Una vita di eccessi per allontanarsi da una famiglia che (se si esclude la sorella minore Paola) sentiva lontana da sé e dalla propria strada, e con la quale cercò di fare i conti con la stesura del suo libro “Il risveglio dei faraoni”, pubblicato dapprima clandestinamente e solo di recente in via ufficiale, contro il volere della famiglia.

L’energia che innervava le sue scelte riluce nitida nella messa in scena della sua breve esistenza. Le discussioni politiche affondati in un grande letto morbido tra paillettes e Marcuse, gli spettacoli dissacranti che invocano la caduta del patriarcato, gli incitamenti di piazza alla ribellione, tutto viene tracciato con mano sincera e con l’affetto che si riconosce a un precursore.

Andrea Adriatico ha saputo raccontare l’uomo e le sue fragilità e con la stessa intensità ne ha narrato le amicizie, i compagni di viaggio, e una famiglia che stentava a riconoscersi in un essere così a lei alieno. Nessuna macchietta, istrionismi o bozzetti, ma personaggi completi, vivi, sofferenti o gioiosi anche per i pochi attimi in cui appaiono sulla scena. Si sente l’energia del progetto, traspare dalla profonda immedesimazione di ogni personaggio a partire da Nicola Di Benedetto, un Mario Mieli che crediamo abbia dovuto tratteggiare grazie ai suoi scritti e ai racconti degli amici, più che con la collaborazione della famiglia. Ma anche dalla cura delle musiche, dei costumi, degli interni della casa di famiglia e di quelli delle comuni dove Mario soggiornava.

Ciò che rimane nella parabola umana di questo libero pensatore, eccentrico e votato all’autodistruzione, sono gli amici con cui ha diviso intimità e dimensione politica, letture e speranze, follia giovanile e dissenso. Forse davvero, come afferma il protagonista, il ruolo del clown sulla scena è quello di ricordare a tutti che stanno recitando una tragedia.