Qual è il motivo per cui ci sentiamo così coinvolti e toccati dalla vicenda di Gollum? Un tentativo di spiegazione attraverso l’archetipo junghiano dell’Ombra.
Quando si tenta la lettura psicologia di un film, si rischia facilmente di cadere nella trappola dell’analogia. Vale a dire accontentarsi d’indicare il significato simbolico, nascosto, che ci sembra di intravedere in questo o quel personaggio, questa o quella situazione. Il Signore degli Anelli è ricco di questo genere di tentazioni, soprattutto da un punto di vista junghiano.
Così si può trovare in Anduril, la spada utilizzata da Aragorn nella Guerra dell’Anello, il ‘fallo’ che attraverso lui restituisce alla sua casata il titolo reale di Gondor; il secondo nome dell’arma – Fiamma dell’Occidente – fa poi gridare di gioia dal punto di vista simbolico per le sue valenze solari. Ancora, nell’amicizia tra Gimli e Legolas, si può dire che è rappresentata la conciliazione tra il principio spirituale e quello ctonio; nella discesa nelle miniere di Moria, un’analogia con quella nell’inconscio e così via. Ma è con l’archetipo dell’Ombra che il Signore degli anelli permette di sbizzarrirsi in sommo grado. Le coppie luce/oscurità sono ovunque: ecco che in Gollum si trova l’Ombra di Frodo, in Saruman quella di Gandalf, in Shelob quella di Galadriel, in Denethor quella di Theoden … e si potrebbe andare avanti per righe e righe.
Se in un primo momento può sembrare di aver avuto accesso a un livello di comprensione in qualche modo più profondo, alla luce di una riflessione si scopre che questo genere di lettura è in realtà assai superficiale. Prendendo ad esempio Gollum, ci si rende conto che – ben lungi dall’essere una semplice controparte ‘umbratile’ di Frodo – ci troviamo davanti a un personaggio meritevole di un’analisi a sé. Volendo insistere su una lettura junghiana, Gollum è sì un’Ombra, ma in molteplici sensi. È innanzitutto quella di Smeagol, il nome che aveva prima di trovare l’Anello ed essere esiliato per le malvagità che l’artefatto lo spinge a compiere. Ed è ombra – aspetto che si tende a notare poco – dell’Anello stesso, seguendolo ovunque e ostacolandolo nei suoi piani di ritorno al dito di Sauron. Per questo motivo si può dire che è errato parlare di Gollum come ombra di Frodo, poiché non è lui che segue ma l’Anello.
Anche una volta raggiunta questa conclusione, resta però evidente che aver individuato un archetipo non è abbastanza per dire di aver fatto una ‘lettura’ psicologica del personaggio. Abbiamo tutt’al più dimostrato che l’archetipo dell’Ombra è ben attivo nella struttura delle nostre rappresentazioni, ed emerge prepotentemente nelle storie di personaggi controversi, combattuti, oscuri; quella di Smeagol/Gollum non fa eccezione. Ma di nuovo, è poca cosa limitarsi a indicare col dito gli archetipi come curiosi animali, là dove si affacciano attraverso i personaggi della vicenda. Il discorso si fa diverso, e molto più interessante, se invece questi “ritrovamenti” vengono utilizzati come strumenti d’interpretazione per spiegare una delle cose che rendono così affascinante e ‘senza tempo’ il Signore degli Anelli, vale a dire il suo impatto emotivo.
Non potendomi soffermare sull’intera trilogia, in questo articolo mi occuperò proprio della vicenda di Smeagol/Gollum, cercando di illustrare i motivi che la rendono così coinvolgente e centrale all’interno dei tre film, aiutandomi con la lezione junghiana sugli archetipi.
Innanzitutto è curioso notare come nel primo capitolo, La Compagnia dell’Anello, Gollum sia presente pur senza essere mai visto. L’unica scena che lo raffigura da vicino è un’inquadratura su due occhi che emergono dal buio pesto delle miniere di Moria, mentre Gandalf inizia a parlarne per la prima volta nel dettaglio a Frodo. Pur non partecipando attivamente all’azione, le parole di Gandalf lasciano però intendere quanto il contributo di Gollum sia fondamentale per quanto avviene ne La Compagnia: è attraverso di lui che Sauron è venuto a conoscenza della Contea e dei Baggins, e lo stregone è convinto che abbia ancora una ruolo importante da giocare nelle sorti dell’Anello, «nel bene o nel male».
Non è dunque solo la rappresentazione del personaggio nella forma di un’ombra silenziosa e onnipresente, impossibile da seminare, a toccare le nostre corde emotive, ma anche la sua natura ambigua, che Gandalf anticipa essere al di là dei giudizi morali che il suo aspetto gretto e ripugnante, e le sue azioni malvagie suscitano. Questi sono in effetti degli elementi presenti nelle immagini archetipiche attraverso cui, secondo Jung, l’Ombra – una pletora di elementi moralmente, ma non in assoluto negativi – si manifesta nella psiche. E sono proprio questi a riempire Gollum del potere di suscitare reazioni emotive potenti e ambivalenti nello spettatore.
Ne Le Due Torri, il personaggio si mostra in una delle primissime scene, finendo in un’imboscata di Frodo e Sam che riescono a catturarlo. È importante notare che ciò avviene di notte. L’alternanza di luce e buio è fondamentale nello sviluppo di Gollum. Gli snodi narrativi che lo riguardano avvengono sempre sotto la luna. Di notte non viene soltanto catturato, ma ha due importanti conversazioni: la prima con Frodo, il quale gli riporta alla mente il suo vero nome, Smeagol, e si guadagna così la sua momentanea, per quanto combattuta, amicizia e fedeltà; la seconda con la propria Ombra, Gollum, cacciandolo dalla propria mente e liberandosene momentaneamente. Nel secondo capitolo, il personaggio ha una valenza prettamente positiva fungendo da guida a Frodo e Sam nel loro viaggio verso Mordor.
Emergono così due elementi psicologici che commuovono lo spettatore: il primo è la lotta interiore, il conflitto con se stessi che ci fa sentire vicini e solidali con Gollum. Il secondo è l’aspetto positivo dell’Ombra, che là dove viene integrata, immergendosi nel pericolo della notte, dona una metaforica “vista al buio”, una forza in più che rende possibile a Frodo e Sam di perseguire il loro scopo. È solo grazie a Smeagol, anche quando pervertito di nuovo dall’Anello cercherà di separarli e li attirerà nella tana del ragno Shelob, che i due hobbit portano a termine la missione.
Nel capitolo successivo della trilogia, infatti, Smeagol regredirà nella forma di Smeagol/Gollum nel momento in cui si sentirà tradito da Frodo che lo lascia catturare dai cavalieri di Gondor. In realtà lo hobbit gli salva in questo modo la vita, ma la mente di Smeagol è ormai troppo distorta dal male per potergli credere. Questa sua profonda umanità, la vicenda drammatica che lo ha portato a una solitudine senza rimedio, ci porta a empatizzare con lui, a provare quasi una tenerezza nei suoi confronti. In questo Peter Jackson è maestro attraverso scene come quelle in cui Smeagol impedisce a Frodo di consegnarsi al nemico davanti al Nero Cancello, o quella in cui porta agli hobbit affamati due conigli cacciati da lui stesso.
Nel Ritorno del Re, Smeagol/Gollum torna invece a essere un antagonista e ad assumere su di sé caratteristiche oscure dell’Ombra: malizia, doppiezza, violenza e bestialità. Ma a questo punto le reazioni emotive dello spettatore non possono essere di totale condanna e avversione, come possono esserlo nei confronti del capo degli orchi o di altri personaggi negativi come il Re di Angmar. I sentimenti dello spettatore per Smeagol/Gollum sono ben rappresentati da Frodo, che anche dopo aver capito di esser stato tratto con l’inganno nella tana di Shelob e sta per strangolarlo, lo libera dalla presa, credendogli quando giustifica le proprie azioni con l’influsso negativo dell’Anello. La stessa fine di Smeagol/Gollum conserva in sé questo carattere di sospensione morale: anche se il suo fine non è salvare la Terra di Mezzo ma avere l’Anello per sé, è lui che rubando l’Anello a Frodo, istiga quest’ultimo a gettarglisi addosso, precipitandolo insieme al malefico artefatto nelle fiamme del Monte Fato, distruggendo entrambi una volta per tutte. La sua parabola si conclude com’era iniziata, sotto terra, figurativamente nell’inconscio, ma dissolvendosi stavolta nella luce della lava del vulcano, così come era emerso dalle tenebre della miniera.
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