Un film horror e drammatico austro-tedesco del 2017, diretto e sceneggiato da Lukas Felgeifeid
Se chiediamo al cinema di condurci in territori poco battuti, se cerchiamo una dimensione che ci metta in contatto con le nostre paure più antiche e ancestrali, di quelle che stanno saldamente ancorate alla nostra amigdala e non hanno alcuna intenzione di andarsene, questo film fa per noi. Incredibilmente prodotto grazie al crowfounding al termine di un corso di fotografia, dimostra che quando si ha qualcosa da dire e si hanno gli strumenti espressivi per poterlo raccontare, allora si fa centro.
Sulle Alpi austriache nel 1400, in un’atmosfera cupa e al contempo, rarefatta, una donna trascina a fatica una slitta sulla quale è seduta una bambina. Incombe un cielo che si sta trasformando in buio, denso e pieno di ombre. Un signore le ferma invitandole alla prudenza perché l’oscurità che sta scendendo potrebbe essere foriera di sciagure.
Ecco, basta questo incipit per capire che questo film fa parlare l’oscurità, fa sussurrare parole sconosciute agli abeti innevati che si vanno scurendo. E noi spettatori restiamo inchiodati.
Il regista disegna qui sentimenti proiettandoli in un’atmosfera talmente cupa da evocare tutta l’oscurità che ci portiamo dentro. Quando le due raggiungono la casa sul limitare del bosco, l’interno dovrebbe comunicare un senso di sollievo e, invece, quell’oscurità ormai è penetrata, e trasuda dalle travi di legno, dalla luce tremolante emessa dalla candela, dagli umili oggetti per cucinare, dai letti fatti di paglia. Il senso di coesione che unisce la madre e Albrun (questo il nome della bambina) è la fonte stessa del loro isolamento, della follia che aleggia sulla loro casa. L’intero paese, infatti, le ha bollate come streghe. I tempi sono lenti e, proprio per questo motivo, la sensazione di verosimiglianza ancora più invadente, la ricostruzione di un mondo ancestrale così accurata da rendere l’intera storia l’ inquietante capitolo sulla stregoneria uscito da un libro di storia.
Solitudine e pregiudizio inseguono le due, la natura selvaggia ma imperscrutabile e remota acuisce la chiusura e l’incomprensione mentre una narrazione asciutta si fa da parte per lasciar parlare gli sguardi e i corpi magri e nervosi. La storia procede per capitoli – Ombre, Corno, Sangue, Fuoco – in gran parte dedicati alla bambina ormai divenuta giovane donna e a sua volta madre di una neonata. Non si sa come sia rimasta incinta né chi sia il padre e questo procedere elusivo non fa che acuire lo spaesamento di chi osserva la vicenda. Tra l’altro l’ambiguità della sua condizione e la sua sensualità semplice e diretta la rendono facile preda del dileggio da parte dei paesani che al suo passaggio la scherniscono.

Ma lei è una figlia della natura, e sembra non accorgersene; il candore alimenta il suo sguardo incantato sulle cose e, quindi, non è pronta ad affrontare la manipolazione di una donna che si finge sua amica. Sarà la scoperta del tradimento e uno stupro di cui è vittima a farla precipitare nel gorgo della dissociazione. Nel film il regista ricorre a molti degli oggetti tipici della narrazione horror sulla stregoneria, dallo zoccolo al corno ai teschi e al fuoco, ma reinventandoli all’interno di un tessuto narrativo tutto incentrato sul punto di vista di Albrun, reso onirico e parossistico dalla sua condizione di isolamento. Il film non chiarisce se l’ambiguità di lei e il lento scivolare verso i riti satanici siano una reazione difensiva all’abuso che sta subendo. Non c’è infatti alcuna sovrapposizione interpretativa, ma solo l’attivazione di una sensazione di allarme e inquietudine che le immagini potenti evocano. Quindi un film forte e riuscito che racconta i danni prodotti nella storia da pregiudizio, ignoranza e isolamento.
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