Hava, Maryam, Ayesha (Afghanistan, 2019). Regia: Sahraa Karimi. Interpreti principali: Arezoo Ariapoor, Fereshta Afshar, Hasiba Ebrahimi.

La grandezza del cinema, una opportunità che è in grado di offrire, è la sua universalità. Non nel senso di riuscire a parlare a tutti – chi non è in grado di accogliere determinate vicende all’interno delle coordinate che gli consentono di leggere il mondo si limiterà a evitare la visione. Ma nel senso di rendere disponibile agli spettatori storie a cui ordinariamente non hanno accesso perché silenziate dal rumore di fondo dell’informazione h. 24, oppure portate alla luce come corollario di costume di altre storie che fanno più notizia: una bomba al mercato, un kamikaze che si fa esplodere, un barcone che affonda.

Cosa c’è dietro lo scoop di cronaca, l’esercito americano che abbandona Kabul, la strage all’aeroporto, la caccia agli interpreti che hanno lavorato fino a ieri per gli “invasori”? Donne e uomini simili a noi. Cresciuti in una famiglia, con fratelli, zii e nipoti, il pane da mettere in tavola, le perdite, le delusioni, le conquiste, il desiderio di costruirsi un futuro, il bisogno di amare e di essere amati.

Sahree Karimi, documentarista iraniana di origine afgana, dipinge tre ritratti di donna nell’inverno di Kabul.

Hava si muove affaticata all’interno della casa del marito, per il quale deve preparare una cena importante.

Fa da serva per il suocero, da badante per la suocera, cuoca e cameriera per il marito e i suoi numerosi ospiti. Tutti le rivolgono la parola solo per darle ordini, ed è scontato che li debba eseguire senza protestare. L’unico essere con cui parla è il bambino che porta in grembo, ormai prossimo alla nascita. L’unica ribellione che si permette è portare il latte al gatto che il suocero vorrebbe uccidere. Nei suo occhi remissione e dolore.

Maryam è la speaker del telegiornale nazionale.

Decisa, colta, consapevole del proprio ruolo sociale e professionale, dopo il lavoro torna a casa e si trova a rispondere alle continue telefonate del marito, che ha lasciato da pochi giorni dopo averne scoperto l’ennesima infedeltà. Le sue accuse sono circostanziate, il suo dolore è profondo, la sua scelta è senza ritorno. Il bambino che porta in grembo probabilmente non vedrà mai la luce. Da un cassetto tira fuori il vestito da sposa e lo indossa. Si toglie l’anello. Nei suoi occhi delusione e disincanto.

Hayesha ha 18 anni e si sposerà con suo cugino.

“Una casa senza marito è come una pentola senza coperchio”, le dice la madre, rimasta vedova a causa di una bomba che ha ucciso il marito. Anche lei dovette accettare un matrimonio combinato, ma poi con la nascita dei figli imparò ad amare anche il loro padre. Hayesha è incinta, coma Hava e Maryam: il suo ragazzo, come si usa, l’ha lasciata, e lei ha trovato l’indirizzo e i soldi per ricucire la sua normalità di diciottenne. Solo un’amica, che la accompagna, è a conoscenza del problema. Il cugino ha il viso dolce e l’espressione sorpresa, non comprende perché Hayesha dopo averlo inizialmente rifiutato abbia accettato di fidanzarsi con lui. Gli occhi di Hayesha raccontano timore, speranza, bisogno di voltare pagina.

Tre storie collegate da una città, una possibile maternità, un volo di uccelli che in ognuno dei tre quadri si librano nell’aria. Vorrebbero farlo anche queste donne, diverse per età, cultura e condizione sociale, collocate su gradini diversi nella scala dell’emancipazione: ma restano tutte incastonate in un sistema di tradizione, religione, cultura che ha radici troppo profonde per essere recise con un semplice colpo di forbici, come fa la vicina di Hava potando i rami del suo frutteto in apertura del film.

Gli occhi di queste donne sono la porta sul loro mondo, ma nella sala d’attesa della clinica clandestina dove si pratica l’aborto altre donne si nascondono dietro il burqa, un velo fissato al capo con una finestrella a rete fitta all’altezza degli occhi. Occhi che non vedono e non possono essere visti. La storia di questi giorni ha ribaltato il lento percorso che l’Afghanistan aveva intrapreso, facendolo ripiombare nel suo medioevo religioso.

E’ tornato un velo, imposto dall’uomo, a coprire conquiste fragili e proprio per questo bisognose di cura e attenzione. Sahraa Karimi tratteggia tre donne diverse nella capitale di un Paese che non si vuole arrendere. Nel gesto di ribellione di ognuna si nasconde il seme del suo futuro, che dopo un inverno forse lungo tornerà a germogliare.