I Basilischi (Italia, 1963). Regia: Lina Wertmüller. Interpreti principali: Stefano Satta Flores, Antonio Petruzzi, Sergio Ferrarino, Luigi Barbieri, Flora Carabella, Rosanna Santoro.

L’opera d’esordio di Lina Wertmuller è un film breve, girato con pochi mezzi, con la troupe che aveva preso possesso di un appartamento dove rimase per tutta la durata del set, quando ancora il cinema era artigianato di qualità e risentiva degli influssi del neorealismo; grande successo all’epoca, tanto da aprire alla sua regista una carriera luminosa che sarebbe culminata negli anni Settanta con film dai titoli lunghissimi, impreziositi da una coppia di protagonisti irripetibile.

Un b/n dove le pietre trasudano luce bianca e le scalinate ardono al sole d’estate. Un ritratto sincero, impietoso ma leale, di un sud incapace di smuoversi dai suoi riti. La regista ebbe l’idea del film quando, sulla strada per raggiungere il set di Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, si fermò nel paese della Basilicata da cui suo padre era partito per andare a Roma a fare l’avvocato.

Il titolo del film può prendere le mosse da tanti spunti: da una delle tante etimologie del toponimo Basilicata; dall’omonimo lucertolone con la cresta originario del centro America e capace di correre sull’acqua grazie alle sue zampe palmate; o ancora dal rettile mitologico che, secondo Plinio il Vecchio, era capace di pietrificare un uomo con la sola forza dello sguardo.

La storia non ha una trama vera e propria, emerge soprattutto come ritratto d’ambiente: tre amici ventenni – Francesco, Sergio e Antonio – passano le giornate passeggiando per il paese in cerca di conquiste femminili o giocando a carte al circolo. Una voce fuori campo racconta cosa accade al momento della controra, la breve pausa dopo pranzo quando il sole picchia nelle strade e nei vicoli, la digestione rende macchinosa ogni mossa e tutti, dal notabile al disperato, si fermano a fare un pisolino. Controra come livella sociale che azzera ogni attività, impigrisce la mente e cristallizza il corpo. Quando il paese si risveglia la camera volge il suo sguardo su capannelli di anziani, donne che guardano lo struscio dalla propria finestra, discussioni sempre uguali, una nostalgia malcelata per il Ventennio e corteggiamenti impacciati più prossimi a una transazione commerciale che al desiderio di una relazione autentica.

Anche quando qualcuno propone una novità, l’accidia occupa subito ogni spazio: l’iniziativa viene depotenziata con commenti malevoli e svilenti, denigrando al contempo chi l’ha proposta. A modo loro, anche questi personaggi si tengono reciprocamente sotto tiro come nei film di Tarantino: non con una pistola, ma con alluvioni di parole sempre identiche giorno dopo giorno, una neghittosità che si fa sistema e riesce a permeare ogni minimo slancio altrui.

E’ una non storia che ci parla della resistenza al cambiamento: tutti rimangono in paese, chi facendo lavoretti, che in attesa di laurearsi, sempre rimandando a domani una svolta che non arriva e cullandosi in un eterno presente vischioso e passivo.

Lo sguardo sulle passanti che ancheggiano lungo il corso anticipa di molti anni le piazze virtuali dove le persone scrutano e si fanno scrutare. I fatti, le traiettorie di vita non cambiano, anno dopo anno, d’accordo, e questa è la lettura più immediata. Ma perché non accade? Perché le persone non ci provano, non si mettono in gioco, e restano avvinghiate a un eterno presente di comoda sconfitta? Perché a ben vedere nessuno è felice, risolto, sereno. O almeno stanco e sconfitto per averci provato.

No, tutti fermi. E’ il sud, il nostro sud? O è un sistema culturale che sfavorisce l’impresa, fosse anche montare e smontare valvole in un garage? O ancora è il tiro incrociato cui si è fatto cenno sopra, se non ce la faccio io non devi farcela nemmeno tu? Nascere a Minervino Murge, dove è ambientato il film, o nella provincia pavese o trevigiana, in paesi di analoga popolazione, crea le stesse opportunità? Fino a che punto essere lucani è una fragilità e quando inizia invece a diventare un alibi? Qual è la forza che tiene ancorati al proprio microcosmo questa generazione di ventenni, la cui massima aspirazione è prendere una laurea e tornare subito al paese?

Lina Wertmuller, che ci ha salutati qualche giorno fa, racconta senza giudicarli una generazione e un territorio: lo fa con attori sconosciuti che sembrano presi per le vie del paese. Il personaggio di Stefano Satta Flores, che avremmo apprezzato qualche anno più tardi nelle vesti del professor Nicola Palumbo nel capolavoro di Ettore Scola, ne I basilischi è l’emblema di questo stallo. Mentre 13 anni più tardi, in C’eravamo tanto amati, era un cinefilo incallito finito a Roma dal sud più profondo e poi divo della tv in Lascia e raddoppia: indignato, incazzoso, pieno di propositi di cambiare il mondo assieme ai suoi amici, si dibatteva in un’altra tela di ragno, quella di chi crede di avere ragione e di subire le angherie del mondo.

Sempre uno sconfitto, ma almeno lui ci aveva provato.