I giganti (2021). Regia: Bonifacio Angius. Interpreti principali: Bonifacio Angius, Stefano Deffenu, Michele Manca, Riccardo Bombagi, Stefano Manca, Noemi Medas, Roberta Passaghe

A ridosso di una strada statale che percorre l’interno della Sardegna si trova una casa diroccata, circondata da campi stopposi e del frinire delle cicale. Ci vive Stefano, barba lunga come i capelli a incorniciare uno sguardo stolido ed assente; in breve viene raggiunto da Massimo, Andrea e Piero, che arriva insieme al fratello più giovane Riccardo. A parte quest’ultimo, sono tutti quarantenni devastati dalla vita e da esperienze andate male. Con le donne, il lavoro, la politica, ognuno ha perso qualcosa, e il modo che sceglie per elaborare il proprio dolore è quello di consumare droga insieme agli amici fino a stordirsi. Speed, crack, coca, eroina e superalcolici sono la base traballante su cui questi maschi fragili appoggiano le loro solitudini. I pensieri sono libere associazioni, tanto libere che se ne perde il senso, e immaginiamo che siano state registrate durante situazioni analoghe, convinti che la fantasia di uno sceneggiatore non saprebbe mai spingersi a tali vette di surrealismo autistico. Tra sballo e rivendicazioni spunta una pistola, due donne, e qualche tentativo di dare un significato a ciò che questi giganti friabili si portano dietro. Ma la mascolinità incattivita non consente scampo, perché oltre certi limiti un uomo ferito non ha più scelta, deve solo reagire nell’unico modo che conosce.

Film claustrofobico di 80 minuti, girato quasi tutto in un interno con le finestre chiuse e le luci abbassate, volute di fumo che salgono lungo le pareti e frasi sconnesse e imprecise. L’unico orizzonte che si apre, ma solo per un attimo e solo per essere ricoperto di insulti, è quello di un corteo funebre che appare nel campo davanti casa, tra le fessure di una finestra socchiusa e le note di una banda. La potenza narrativa di Bonifacio Angius (autore, regista, attore, montatore e coautore delle musiche) è innegabile e innerva tutto il racconto, che uno dei protagonisti da tragedia ha derubricato a novella. Mentre il giradischi sparge nell’aria melodie dolcissime di un tempo che non abita più tra loro, Massimo, legatissimo a sua figlia ma lasciato dalla compagna, rimugina su un abbandono mai accettato e cova la sua vendetta.

Come Stefano, che reagisce con uno sguardo catatonico e si allontana in una delle stanze del piano di sopra mentre il testosterone esploso grazie alle sostanze inizia a impregnare l’aria. Mezze frasi, spiegazioni mai davvero richieste, voglia di stordirsi: più i protagonisti restano fermi nella casa, come i quattro amici di Ferreri ne “La grande abbuffata”, più ognuno si allontana da sé. Me mentre quelli rinchiusi nella grande villa parigina sublimavano la propria pulsione di morte sull’altare dell’epicureismo più sfrenato, l’autodistruzione dei quattro amici sardi è una discesa agli inferi che non prevede alcun pedaggio intermedio.

Qualche incongruenza narrativa (l’improvvisa presenza delle donne, l’evoluzione inaspettata di Riccardo) nulla toglie a un’opera di grande rigore espressivo e di profondo dolore esistenziale: un grido di Munch lanciato nel silenzio di un’estate indifferente, con vite ancora giovani ma già disinstallate consapevolmente da chi le possiede. Il problema non è la sconfitta che ciascuno di loro può aver subito, capita tutti i giorni di perdere; il problema è l’incapacità di rialzarsi o, meglio, di riconoscere a se stessi questa opportunità. Quando i dialoghi si riducono a un braccio di ferro e l’ottundimento della mente è l’unica difesa dal dolore, quale altra possibilità rimane per giocare a un tavolo dove ci siamo già dati perdenti?