“Le modalità impreviste e casuali con cui la morte sopraggiunge non consentono di pensarla come ciò verso cui la vita è protesa, come l’accordo finale di una melodia” 

da “Il Corpo” di Umberto Galimberti

I GIORNI CONTATI (1962) di Elio Petri.

Quando Cesare, uno ” stagnaro” di 53 anni, in un pullman affollato di Roma, vede un uomo accasciarsi e morire per infarto, prende una drastica decisione. Realizza instantaneamente che la vita, con già quarant’anni di lavoro sulle spalle, gli può sfuggire da un momento all’altro. Ma soprattutto comprende il senso della morte. Ed è inutile che ingenuamente chiede al medico se può sapere quando morirà. Ciò non si può sapere, come non si sà quando si nasce. Capisce che deve iniziare a “vivere” un’esistenza fino allora trascurata, sacrificata tra i tubi dei bagni altrui. Abbandona il lavoro, pur non potendo ancora andare in pensione, ha qualche risparmio da parte, ed inizia, così, a “scoprire” il mondo: o almeno tenta.

La natura alienante della società moderna, quella per cui ciascuno può tristemente verificare la propria inutile fungibilità, quella della supremazia della massa sul singolo, confligge con lo sforzo di far prevalere la propria individualità. E la massa estraniante che ci circonda, soprattutto per chi ha scarsi mezzi economici, non è un’entità astratta. E’ qualche cosa di concreto, che nel film si “tocca”, grande alla grande capacità di Petri nel rendere abissale la distanza tra Cesare e la voglia di scoprire tutto ciò che lo circonda.

E’ uno squilibrio multiforme, mostruoso, tentacolare, una vera e propria clonazione del mito di Idra. Un’estranazione che si estende alla socialità. Emblematica  la scena nella quale va in spiaggia con gli amici, ma si rende conto, amaramente, che quell’allegria, spigliatezza, modernità di giovani e ragazzi è inconciliabile con la natura, timida, riservata, di uno che non ha partecipato a quelle fulminea trasformazione sociale ed antropologica propria dell’Italia del boom economico degli anni ’60. Riguarda anche la sfera intima. Cesare è un uomo solo, la moglie è morta da molti anni, l’unico figlio lo va a trovare solo per chiedere soldi. Il tentativo di un rapporto sessuale fallito con una prostituta è mortificante. Ed anche il legame, inizialmente affettuoso, con una ragazza vicina di casa si va ad infrangere nella consapevolezza del divario dell’età, oltretutto portata molto male.

Allora?

Come avviene in questi casi, il lato melanconico e mnestico dell’uomo, spesso relegato in un cantuccio della nostra anima comincia a risalire la strada della coscienza. Rivede un suo vecchio amore, Giulia (Regina Bianchi), con la quale cerca di ristabilire un dialogo. Ma il lungo tempo passato, e soprattutto gli affetti familiari di cui Giulia, come moglie e nonna è legata, non rendono possibile un’evoluzione positiva. A questo punto Cesare, insofferente nei confronti della società che gli sta attorno, osa di più, decide di lasciare completamente Roma. Ritorna al paesello dal quale è partito quando era ragazzo. Struggente la scena quando entra nelle due piccole e fatiscenti stanze in cui è nato, anche se la nuova proprietaria è quasi infastidita dalla sua presenza. Oltretutto, anche qui, come nel resto della nazione, l’emigrazione dai piccoli centri contadini verso la grande città ha compiuto il suo massacro. Non è rimasto più nessuno, e anche l’infelicità di quei pochi nativi stanziati lì denota una solitudine umana che allontana Cesare dal suo intento: ed allora…mestamente,,,,,,è costretto a ritornare alla sua triste realtà…in quanto comprende che ricostituirsi una vita tornando indietro con il tempo è solo illusorio.

Ma non c’è solo alienazione o malinconia. Il carattere, la formazione di una persona è determinante nelle scelte che fa, in ogni momento della sua vita. Cesare è oramai rimasto senza soldi. Da un suo smaliziato apprendista gli viene organizzata una truffa per ottenere un cospicuo indennizzo per la (reale) frattura del suo braccio. Ma il povero Cesare, già intimorito di suo, ma soprattutto un uomo buono e accondiscendente, non ha il coraggio di portare a termine questo losco intento.

I Giorni Contati è un’opera quasi totalmente introspettiva. Ci sono solo accenni documentaristici, l’adozione dello stile della nouvelle vogue tipica di quel periodo in alcune riprese, riferimenti alle borgate romane (“Mamma Roma” di Pasolini è di quello stesso anno, “Accattone” di quello precedente). Ma il film si fonda sostanzialmente sull’interpretazione dell’ottimo Salvo Randone, che nello sguardo, nei tratti somatici, nel portamento, nei dialoghi, nella maschera tragica ed umana che indossa, condensa i tre ostacoli che una persona qualsiasi, senza possibilità economiche, ad un punto della propria vita, potrebbe trovare nella scelta improvvisa di voler riconvertire la propria esistenza: l’alienazione sociale, la “trappola” melanconica, il proprio carattere.

Il film, privo di speranza, che ben illustra la predestinazione del destino umano, tema molto caro alla letteratura del ‘900, è diretto dall’immenso Elio Petri. Qui siamo ancora lontani dal contenuto di quelle sue opere acclamatissime negli anni ‘70, dove verranno rappresentate problematiche italiane di più ampia portata, quali l’esternazione del potere, la politica e le dinamiche lavorative. Ma ciò non toglie che Petri, con questo film, che esalta l’uomo nella sua alienata solitudine, abbia aggiunto un ulteriore fondamentale tassello a quel cinema di suprema qualità, proprio di quel decennio e di quello a seguire, che è rimasto un vanto, ineguagliato, ed ineguagliabile, del nostro Paese.