I Racconti Immorali (Titolo originale Contes Immoraux, Francia, 1974). Regia Walerian Borowczyk. Interpreti principali: Charlotte Alexandra, Florence Bellamy, Lorenzo Berinzi, Jacopo Berinzi, G. Lorenzo Bernini, Pascale Christophe, Lise Danvers, Paloma Picasso, Fabrice Luchini, Mathieu Rivolier, Gerard Tcherka, Marie Forsa, Kjell Gustavsson, Tomas Hnevsa, Nicole Karen, Philippe Desboeuf, Robert Capia

Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Cracovia, il regista iniziò la sua carriera con il cinema d’animazione in cui introdusse un surrealismo del tutto innovativo, per poi trasferirsi a Parigi ed approdare al cinema erotico, che negli anni Settanta avrebbe visto esprimersi molti autori. Con una traiettoria originale, la stessa che seguì Tinto Brass dopo l’esordio con “Chi lavora è perduto” e i successivi film intimisti, anche Borowczyk passò presto a un cinema fatto di corpi e desiderio.

Con un cinema elegante ma non patinato (come il filone di Emmanuelle), poco incline a sovrascritture politiche (come la lettura pasoliniana dei rapporti di potere) ma visivamente debordante, la sua cifra stilistica si indirizzò verso un erotismo inserito all’interno di contesti ben strutturati, una struttura drammaturgica complessa e non soltanto orientata a sollecitare i desideri del pubblico maschile.  

Tra censure, sequestri, dissequestri e nuovi montaggi il film ebbe una storia distributiva particolarmente martoriata: tra la prima versione (quattro episodi di epoche diverse montati senza rispetto di una sequenza temporale, un cortometraggio tra un episodio e l’altro, e un commento ironico a depotenziare la carica erotica del film) e l’ultima (cinque episodi in rigoroso ordine temporale), distribuita in blue ray pochi anni fa e più vicina all’idea originale del regista, passano più di 40 anni.

Se lo spettatore è invecchiato tra delusioni e disincanti, quello che una volta si chiamava “comune senso del pudore” si è evoluto, se solo pensiamo che il delitto d’onore è stato cancellato dal nostro codice penale nel 1981 e l’omosessualità non è più considerata malattia mentale solo dal 1990. 

Ogni episodio è costellato di nudi femminili, eleganti riferimenti pittorici o naturalistici, e una scrittura scenica che viaggia dritta come un treno in corsa dal significante al significato. Certo l’impatto è potente ancora oggi, se pensiamo all’episodio “La bestia” (accoppiamento tra una ragazza e un animale) o quello in cui Lucrezia Borgia copula nelle stanze vaticane, tra crocefissi e paramenti sacri, con il padre – Papa Alessandro VI e il fratello Cesare, mentre Girolamo Savonarola dal suo pulpito grida inascoltato allo scandalo.

Viene in mente per associazione la prima scena di Amici miei atto II, in cui un vedovo, dopo aver saputo dell’infedeltà della propria moglie, la insulta in memoriam e intanto prende a sediate la lapide sotto cui è sepolta.    

Blasfemia, zoofilia, offese ai morti, ma anche vergini sacrificate e autoerotismo femminile, tutto materiale incandescente in un’epoca che mette in discussione il bacio non consensuale subìto da Biancaneve o il razzismo strisciante che permea l’Aida tutta. Sarebbe possibile oggi anche solo ideare un’opera del genere?  Quale produttore rischierebbe il suo investimento per un ritorno esclusivamente artistico-culturale? E non è anche, questa forma di autocensura preventiva, una limitazione alle potenzialità della creazione artistica?

Il primo episodio, in cui un giovanissimo Fabrice Luchini seduce la propria cugina sedicenne su una spiaggia della Normandia introducendola al mistero del rapporto orale, e il montare della marea aumenta parallelo al desiderio dei due ragazzi, sarebbe forse oggi l’unico dei cinque ad avere dignità di ideazione e realizzazione.

Gli altri quattro, storicamente e filologicamente ineccepibili, potrebbero vedere la luce solo se depurati dagli attacchi frontali alla morale odierna.

Le riflessioni su erotismo e cinema si potrebbero anche allargare al porno prêt-à-porter, disponibile oggi su qualsiasi piattaforma per qualsiasi decenne in grado di smanettare su un cellulare. Una volta il sesso era raggiungibile, quando lo si raggiungeva – spesso dopo attese interminabili che servivano ad aumentarne il valore – come una dimensione sconosciuta di cui nessuno ci aveva raccontato i contenuti, il tempo e le regole: qualcosa di sacro, cui avvicinarsi con rispetto.

Questo, forse, può essere il senso ultimo che questo film ci consegna dopo quasi 50 anni dalla sua realizzazione: la sacralità dell’atto, che non è consumo ma conquista, non è coazione a ripetere ma una scelta tra le tante possibili.

L’altro/a da noi, fosse anche solo il/la partner di una notte, reca con sé un universo di valori, aspettative e speranze da rispettare e al quale chiedere rispetto, in uno scambio alla pari ad altissimo livello di intensità – e proprio per questo più fragile e delicato.