Il Cacciatore (titolo originale The Deer Hunter, USA, UK, 1978). Regia: Michael Cimino. Interpreti principali: Robert De Niro, John Cazale, John Savage, Christopher Walken, Meryl Streep, George Dzundza, Chuck Aspegren, Rutanya Alda, Pierre Segui
Sei amici vivono e lavorano in una cittadina della Pennsylvania dove il rumore sordo delle acciaierie e quello dei motori dei trucks che corrono lungo strade dissestate è il sottofondo di giornate sempre uguali. Tre di loro partiranno presto per la guerra del Vietnam: ma prima di salutarsi uno si sposerà e gli altri cinque partiranno per una battuta di caccia in montagna. Un colpo solo, dice Mike, bisogna usare un colpo solo per uccidere, perché il cervo non ha il fucile e non sarebbe leale. Un colpo solo è anche quello che ha in canna la pistola con cui sono obbligati a giocare alla roulette russa dopo essere stati catturati in guerra. Con un’azione disperata riusciranno a cavarsela, ma le ferite del corpo e della mente non li abbandoneranno mai più.
Avviata da Kennedy e proseguita dal suo successore Lyndon Johnson, quella del Vietnam è ricordata come la “sporca guerra”, un conflitto in cui interi villaggi di contadini sono stati annientati dal napalm. Ma Cimino non racconta, se non in minima parte, i fatti dal fronte. Si concentra sull’amicizia, quel sentimento di fratellanza di chi divide il poco che ha davanti a una birra o a una partita a biliardo, sulle note di una canzone che per antonomasia richiamerà sempre questa vicenda (https://www.youtube.com/watch?v=oYFb4O9d9H8). Racconta i momenti di consonanza e gli scontri che l’amicizia di gruppo propone: perché si può essere vicini a un amico, tanto da promettergli di salvarlo se mai dovesse trovarsi in difficoltà, ma vivere valori opposti rispetto a un altro, che pur appartiene allo stesso gruppo.

Gruppo che si muove in modo ondulatorio, alcuni componenti vanno ed altri che restano, alcune vite si frantumano ed altre continuano come indifferenti a ciò che è accaduto. Un’empatia a strappi, “Bentornato, sono contento di vederti”, ma la vita è andata avanti è ciò che è perduto lo è per sempre. Il gruppo di amici resiste al tempo, nascono nuovi amori ed altri si spengono, e la vita continua a scorrere lenta, le acciaierie a produrre e inquinare, i figli a crescere.
Questo racconta Cimino, con una dolcezza che supera la lucidità, improvvisando in alcune scene, creando un artefatto artistico (la roulette russa non è mai stata utilizzata dai vietcong) che oggi è tutt’uno con il film, costruendo una metafora, quella del colpo solo, che ne suggella la morale.
La deriva autodistruttiva di Nick, rimasto a fare il professionista di questo gioco folle in una Saigon che sta per cadere, non permette alcuna redenzione, non prevede riscatto, non consente un contrappasso. Nick ha un buco nero in testa, quello di chi ha visto un orrore così profondo che la sua strada è segnata per sempre.

Il nostos, il ritorno a casa dalla guerra, che partendo dall’Anabasi di Senofonte ha innervato centinaia di narrazioni in ogni epoca, ne Il cacciatore non racconta il difficile reinserimento dei reduci nel mondo cosiddetto civile, in opposizione a quello folle della guerra, ma piuttosto la sconfitta di un Paese che non ha saputo cercare strade alternative a quella dell’esibizione della propria potenza militare per arginare il pericolo del comunismo, temendo che si diffondesse a macchia d’olio in tutto il sud-est asiatico.
Una guerra preventiva contro un nemico invisibile ha prodotto una generazione rovinata, fosse americana o vietnamita non conta, perché i vent’anni appartengono a tutti, e il loro diritto a ridere, amare, ubriacarsi, picchiarsi, scoprire il mondo fuori dai confini della famiglia, non avrebbe mai dovuto essere soppresso in un modo così insensato.
Fino a pochi giorni fa il Vietnam era lontano. Le adunate oceaniche del mondo occidentale, i ragazzi che chiedevano ai governi di salvare altri ragazzi, esisteva solo nella memoria di chi allora era giovane. Un mondo ormai massicciamente interconnesso accendeva le sue sinapsi elettroniche e invadeva le piazze soprattutto in difesa dell’ambiente e del lavoro. I movimenti di massa, così come le guerre alle porte di casa, sembravano retaggio di un passato ormai lontano.
Poi, nel giro di pochi giorni, una generazione intera ha imparato a toccare con mano l’insicurezza e la paura generate dalla scelta di affrontare l’altro da sé con le armi e non con il dialogo.
E tutto è cambiato, e attraverso l’esibizione muscolare della potenza delle armi ci siamo scoperti fragili, come se 50 anni fossero trascorsi del tutto invano.
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