Il caftano blu (Francia, Marocco, Belgio, Danimarca, 2022; titolo originale Le bleu du caftan). Regia: Maryam Touzani. Interpreti principali: Lubna Azabal, Saleh Bakri, Ayoub Messioui, Abdelhamid Zoughi, Zakaria Atifi, Fouzia Ejjawi

Un piccolo laboratorio dove si creano caftani è il microcosmo in cui Halim e Mina, una coppia sui cinquanta senza figli, affiatata e dedita al lavoro, passa le sue giornate. Gli spazi angusti in cui le sapienti mani di Halim lavorano sul capo di abbigliamento più importante, quello che dà il titolo al film, hanno la morbidezza di tinte pastello. Spazi in cui i suoni, i colori, le parole, affiorano con delicatezza ed eleganza, interrotte solo dalle pretese arroganti di donne viziate che reclamano la consegna rapida dei lavori che hanno commissionato.
Ignorando così che l’artigianato, quello costruito con la pazienza e gesti tramandati da antichi maestri, richiede un tempo differente da quello che detta i ritmi alle nostre giornate. Fuori dal laboratorio la Medina, con le sue strade strette, gli abitanti che si conoscono, i locali dove bere un tè o vedere una partita.

E’ una vita quieta e dedita al lavoro, ritmata da una serranda che si alza alla mattina e si abbassa solo quando è finita la giornata. All’interno di questo ritmo si insinua la malattia di Mina, che lentamente ne oscura l’energia vitale; e la presenza viva di Youssef, giovane apprendista cui Halim insegna giorno dopo giorno la propria arte.

Due adulti, un ragazzo e una bottega. Fuori, il mondo che corre. Dentro, gesti rallentati e silenziosi, narrati in delicati quadri di ordinaria quotidianità. Scopriamo così l’incedere della malattia di Mina, l’omosessualità sempre più faticosa da nascondere di Halim, e l’ammirazione per lui da parte del giovane Youssef, inizialmente ostracizzato da Mina, che giunge ad accusarlo apertamente di una scorrettezza.

E’ un racconto fatto di gesti d’amore: Halim che lava i capelli alla moglie, che sbuccia lentamente un mandarino, che cuce arabeschi dorati sui bordi del caftano che lentamente prende forma. Non è un matrimonio stanco: pur mancando la passione, rimane la cura, l’affetto, una forma d’amore che va al di là delle dimostrazioni del corpo e assume le sembianze di un silenzio carico di tenerezza. L’ascolto diventa una necessità, e il bisogno di comprendere un mezzo per riconoscersi. Halim sente che la moglie intuisce qualcosa: sia per le serate che passa al bagno turco in cerca di rapporti frettolosi consumati in piedi, sia per gli sguardi che si scambia con Youssef, senza però mai superare il limite che entrambi si sono imposti.
Per convenienza sociale, pudore, cultura, non importa.

Ma Mina lo ha compreso, e quando capisce che non le resta molto tempo accoglie il nuovo amore che il suo uomo, indifeso al mondo, sta tentando di reprimere. “Sei l’uomo più puro che conosca”, gli sussurra, vedendo in lui non la vergogna per ciò che nasconde, ma l’amore che ha sempre saputo darle.

Un film sussurrato, elegante, fatto di silenzi, chiuso in un guscio di piccoli gesti che cuciono insieme la realtà di tre vite. Una storia nascosta al mondo che riesce lo stesso a raccontarsi senza timore del giudizio, senza urla o rivendicazioni, con la forza silenziosa che solo l’amore più profondo può offrire.