Essere belli significa essere se stessi.
Non devi farti accettare da altri.
Devi accettare te stesso.
(Thích Nhất Hạnh)

Il Corpo Della Sposa (Italia, 2019). Regia: Michela Occhipinti. Interpreti principali: Verida Beitta Ahmed Deiche, Amal Saad Bouh Oumar, Aichetou Abdallahi Najim, Sidi Mohamed Chinghaly

Quanto è importante essere accettati socialmente? Quanto la pressione degli altri fa breccia nelle nostre convinzioni fino a piegarle alla loro volontà? E cosa siamo disposti a cedere pur di ottenere ciò che desideriamo? In fin dei conti, cosa siamo disposti a fare per essere amati?

La Repubblica Islamica della Mauritania è uno Stato africano che si affaccia sull’Atlantico, indipendente dal 1960 e ubicato a nord del Senegal. Meno di tre milioni e mezzo di abitanti su un territorio grande più di tre volte l’Italia, in massima parte desertico. Nella capitale Nouakchott, poco meno di un milione di cittadini, convivono strade di sabbia e pubblicità di cellulari, tradizioni secolari e spinte alla modernità, favorite in gran parte dai social e dalla possibilità di paragonare il proprio modello a quello di altre realtà.

Qui si sviluppa la storia di Verida, una ragazza appena maggiorenne che lavora nel salone di bellezza della nonna e frequenta due amiche con le quali sognare il futuro, sedute al tavolino di un bar. Sono donne moderne, spigliate, gravide di dubbi e di speranze, del tutto simili alle nostre: ma un giorno la madre comunica a Verida di averle trovato un marito, e che quindi dovrà iniziare a ingrassare per essere una sposa bellissima. E’ il rito del gavage, un’alimentazione forzata non dissimile a quella cui vengono sottoposte le oche che producono il foie gras, per la quale le ragazze in procinto di sposarsi devono in breve tempo aumentare il proprio peso facendo fino a dieci pasti al giorno, anche nelle ore notturne.

E’ una tradizione delle campagne che resiste anche nella capitale, alla quale Verida inizia a sottoporsi senza farsi troppe domande, perché nel suo mondo le cose sono andate sempre così. Ma il ragazzo che periodicamente si presenta a casa sua con una bilancia per verificare il suo peso le fa timidamente capire il proprio interesse, e lei inizia a sentirsi guardata come un essere umano e non più come l’ingranaggio di un meccanismo che ha interesse a fermare.
Questa sua consapevolezza inizia dolcemente a farsi spazio all’interno della famiglia, con le amiche, nelle stanze della casa dove come un’ossessione la madre la raggiunge a qualsiasi ora del giorno e della notte per proporle piatti ipercalorici da svuotare a tutti i costi. Il corpo comincia a dire i suoi no, ed il conflitto con la mente – e con la tradizione – diventa palese.

E’ l’altra faccia della medaglia di tante culture cosiddette evolute, dove al contrario è la magrezza a fungere da modello sociale, un corpo sottile e possibilmente ben definito come passaporto per la felicità coniugale o più semplicemente come veicolo per raccogliere un like: corpi esibiti sulle passerelle delle settimane della moda, sui magazine più venduti, corpi per i quali la magrezza è un modello cui aderire al di là di ogni considerazione razionale. In entrambi i casi, corpi troppo pieni o troppo vuoti, con gravi ripercussioni sulla salute.

Michela Occhipinti, viaggiatrice e documentarista, al suo esordio in un lungometraggio, porta il suo sguardo curioso in un mondo di cui sappiamo poco o nulla.
E’ forse questa la vera epifania del cinema, l’offerta di nuove storie, nuovi mondi, che in dialogo o in frizione con il nostro ci regalano la possibilità di allargare lo sguardo. Perché sappiamo tutto, o quasi, della conquista del west, ma poco o nulla sullo scontro tra aborigeni e coloni australiani, tra Aztechi e Cortès, tra Tehuelche e gli europei che hanno occupato la Patagonia?

Quando il baricentro delle storie si sposta allora lo sguardo invariabilmente si allarga. La regista prende il materiale con cui avrebbe potuto girare un documentario, sceglie attori non professionisti, e confeziona una storia come ce ne sono tante durante il passaggio tra adolescenza e età adulta. Ce la porge con cura e rispetto, girando nelle case e nelle strade dove vivono i protagonisti, cogliendo i loro dubbi, i comportamenti e le aspettative che all’interno di ogni famiglia si posano sui figli.
L’impianto drammaturgico è naturalistico, i ritmi della quotidianità compassati, lenti, come il percorso di consapevolezza che intraprende la protagonista. La scena finale, un riflesso cancellato che nessun effetto speciale avrebbe potuto rendere meglio, racconta il mondo che questa giovane donna vorrebbe lasciarsi alle spalle per restituire il proprio corpo a uno sviluppo naturale. Un corpo nel quale eventuali imperfezioni sono solo l’espressione della propria unicità.