Il declino dell’impero americano (titolo originale Le déclin de l’empire américain, Canada, 1986). Regia: Denys Arcand. Interpreti principali: Dominique Michel, Dorothée Berryman, Louise Portal, Pierre Curzi, Rémy Girard, Yves Jacques, Geneviève Rioux, Daniel Brière
Quando penso a un cinema costruito sulle parole la mente corre immediatamente a La parola ai giurati, esordio folgorante di Sidney Lumet, che chiude in una camera di consiglio 12 persone e attraverso la sola potenza del dialogo e del confronto riesce a stravolgere una realtà che sembrava già scritta fin dall’inizio. Parola come logos, pensiero ragionato, esposto con modalità idonee a smontare un assunto e costruire una rappresentazione alternativa. Ma la parola può essere anche una matassa inestricabile di teorie, un coacervo di metafore, una sequela di riferimenti dotti, tutti destinati a costruire un muro che separa il pensiero dall’azione; o, meglio ancora, a perdersi attorno al nulla disegnando però un quadro teorico che a questo nulla offra una giustificazione culturale. Quindi parola non come pietra da scagliare, ma come strumento di distrazione capace di tenere distante da sé pensieri che potrebbero condurre a una riflessione autentica.

Due gruppi di accademici québécoise quarantenni si ritrovano per stare insieme: in una curiosa inversione dei ruoli solitamente designati, gli uomini nella cucina di una villa sul lago preparano la cena mentre le rispettive compagne passano il pomeriggio in palestra, tra saune e attrezzi ginnici. Entrambi parlano quasi esclusivamente di sesso come pietra angolare del mondo: gli uomini per vantarsi delle conquiste, le donne per condividere con le amiche le proprie emozioni. A cena si ritroveranno insieme, continuando a confrontare le esperienze intime come se fossero le uniche modalità loro note per muoversi all’interno delle proprie vite. Le politica, le guerre, i grandi mutamenti planetari, tutto viene letto nell’unica ottica che sembra interessare loro. Fino a quando una scalfittura, invero scontata, non arriverà a strappare il velo che separa nei protagonisti la realtà dalla rappresentazione.

Parlando con nonchalance di amori di gruppo e derive sadomaso uomini e donne sembrano violare apertamente le regole di un convivio upper class, mentre in realtà recitano perfettamente lo script di un gruppo chiuso e autoreferenziale che crede di aver individuato nella coazione a ripetere del gesto erotico -senza emozioni e privo di amore- la chiave in grado di spiegare tutto. Come fanno per le prelibatezze portate in tavola, condiscono l’argomento di ingredienti esotici così da renderlo accattivante, senza accorgersi che quella finta raffinatezza diventa lentamente una prigione da cui non riescono a uscire.
Il declino dell’impero, del quale i due gruppi abitano la periferia, è sentito da lontano e quindi vissuto con disincanto se non con noia. Non sono i protagonisti di un mondo che sta cambiando (con l’arrivo di AIDS, liberismo economico e terrorismo) ma gli autoproclamati cantori, coinvolti a distanza e quindi convinti di esserne esenti.
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