“spiare la morte” (Sigmund Freud)

IL DESERTO DEI TARTARI (1976) di VALERIO ZURLINI

Qual è il modo migliore di procrastinare il senso della propria morte? Congelare il presente, scansando la dimensione metonimica del desiderio, costruire una barriera tra sè ed il mondo esterno, quello nel quale al contrario si vive in quanto si desidera.

Evitare la vita per evitare la morte.

Non guardare fuori, costruirsi un mondo organizzato nei minimi particolari, che detti esso le regole entro cui resistere -non esistere – senza mai violarle. Attendere. Vedere gli altri che se ne vanno, per scelta o fine fisica, ma programmare, pianificare la propria esistenza in modo che non ci siano vuoti, spiragli, vie d’uscita.

Ecco perché il Deserto dei Tartari di Dino Buzzati è un capolavoro della letteratura, nonché della cinematografia italiana per le doti indiscusse del regista Valerio Zurlini e per la presenza di un cast unico di attori a livello internazionale. Proprio perché quella dimensione soggettiva prima descritta viene posta in capo ad una figura che vive, invece, esattamente per realizzare l’ipotesi opposta: un ufficiale dell’esercito. Un uomo che per predisposizione osserva regole rigide di obbedienza ma sempre finalizzate all’obiettivo ultimo: combattere, accettando il binomio vita/morte quale alternativa naturale della propria esistenza.

Giovanni Drogo, un melanconico Jacques Perin, quale prima destinazione come ufficiale di un esercito di uno stato ipotetico, viene inviato in una fortezza posta in una ziona di confine perfettamente isolata, foriera nel passato di battaglie importanti, ma da moltissimo tempo inviolata. All’interno si svolge pertanto una quotidianità scandagliata dalla notoria rigida vita militare, e da una fievole ma sempre costante attesa, e per tutti speranza: resistere ad un attacco dei tartari che vivono al di là del deserto. Drogo in un primo momento non è colpito favorevolmente da questa destinazione, vuole andare via non riuscendosi, ma più passa il tempo e più ne resta affascinato. Vede i propri commilitoni essere trasferiti, morire, e piano piano la fortezza svuotarsi, diventandone addirittura lui vicecomandante. E solo alla fine, quasi morente perché gravemente malato, potrà assistere alla trasformazione della dimensione soporifera della vita fino al momento vissuta a quella dinamica della vis bellica: la fortezza viene attaccata dai tartari.

L’osmosi della fortezza nell’inconscio di Drogo è il nervo propulsivo dell’opera. Nasce quale strumento per poter finalmente affermare la sua natura eroica di milite esposto indifferentemente alla vittoria e alla sconfitta mortale, senza possibilità di poter decidere. Ma con il passare del tempo, anzi, per colpa del passare del tempo, la medesima fortezza rappresenta la barriera nella quale, nascondendosi, si può “spiare la morte”, come disse Freud, si entra in quella dimensione psicologica dove ogni giorno, inesorabilmente, si pensa al fine della nostra esistenza ma solo per allontanarla. Mi immagino un attacco improvviso, un sorpresa letale, prendo in considerazione un calcolo errato di forze con cui controbattere, l’impossibilità di difendermi, e quindi di sopravvivere. Pertanto, senza espormi, chiuso all’interno della mia dimensione, organizzo nei dettagli una non esistenza per poter dilatare una morte che non voglio.

Quale il messaggio. E’ vita sola quella propesa alla soddisfazione del proprio desiderio, e quindi esposta alla indefinitezza del quotidiano, o anche quella in cui osserva il trascorrere del tempo della propria e della vita altrui, attendendo qualche cosa che potrebbe o non potrebbe accadere, attraverso l’assoluta osservanza delle medesime attività quotidiane?

Ove, pertanto, il punto catalizzatore della propria esistenza non diventa più l’evento ma la stessa attesa, lasciando solo ipoteticamente a noi il compito di poter decidere quale strada scegliere. Che in realtà non vogliamo fare, con l’annesso rischio di non comprendere mai quale sarebbe stata quella giusta.