Il Filo nascosto, ambientato nella Londra raffinata e patinata degli anni ’50, è la storia dello stilista/sarto inglese Woodcock.
Non è una biografia e non è un film storico, nonostante la ricostruzione filologicamente attendibilissima e la cura maniacale nella descrizione di abiti e ambienti, e non è neanche un film sulla moda
Il tema centrale è, invece, quello della creazione artistica, spesso avviluppata a eventi traumatici e mai del tutto risolti del proprio passato, cristallizzata in una sorta di paralisi emotiva; tutto riconduce quindi alla trappola di chi si dibatte in un dolore che non ammette evoluzione ed elaborazione e che ha bisogno di una ritualizzazione per attenuarne la carica ansiogena.
E Woodcock è fermo, bloccato nel lutto mai elaborato della morte della madre, la cui presenza aleggia nella bellissima casa, ma soprattutto nelle seriche stoffe delle sue straordinarie creazioni artistiche.
Lo stilista vive la sua esistenza di scapolo accanto alla sorella che crea le condizioni ideali perché il genio del fratello possa manifestarsi. Gli abiti che prendono forma ammaliano le donne, che restano sedotte dalla carica quasi erotica che si sprigiona dai tessuti. Il sarto vive nella prigione delle sue ossessioni che sole gli consentono una prolificità e una dedizione assoluta all’atto creativo, la cui custode e garante è, appunto, la sorella. Lei è consapevole che il fratello potrà continuare a disegnare solo a patto che l’immobilismo non venga scalfito o turbato da nulla.
Quando la giovane Alma entra in questo circuito perverso ne diventa anch’essa vestale. La creazione segue passaggi rituali che non ammettono deroghe e la ragazza comprende questa verità quasi religiosa al punto da essere disposta a subire violenze verbali e vessazioni di ogni genere. Ma fino a che punto i personaggi possono inscenare un dramma così assoluto? In effetti la compostezza bon ton dell’epoca comprime ed esalta le ossessioni, rendendole quasi insopportabili a chi guarda.
La madre è il filo nascosto che non consente al sarto di vedere nelle donne delle persone, ma solo delle funzioni. Una volta espletato il loro ruolo di attivatrici, le donne vengono scaricate senza tanti complimenti, anche con la collaborazione della sorella. Ma Alma, dapprima idolatrata e poi buttata via, non sopporta questa degradazione e reclama di essere riconosciuta come essere umano. Il passaggio da oggetto a essere umano può avvenire solo se Alma riesce a insinuarsi nella malattia di lui e nella radice stessa delle sue ossessioni.
La giovane comprende che Woodcock non ha mi smesso di cercare l’amore originario e fusionale con la madre e sfrutta a suo favore questo bisogno di accudimento che porta alla regressione. Alma, a questo punto, diventa madre e soccorre, dispensando con caparbietà vita e morte, insinuandosi nella ricerca ossessiva di lui. Lei desidera di essere vista da lui che, nonostante i toni beffardi e sorvegliati, anela solo a rientrare in una condizione di fusione con la madre. Il film è, quindi, soprattutto l’esplorazione di un gioco di dipendenze e trappole emotive raccontato con maestria sublime.
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