IL FILO NASCOSTO (2017) di PAUL THOMAS ANDERSON

“L’amore è donare quello che non si ha a qualcuno che non lo vuole” 
Jacques Lacan (tratto da Seminario VIII, 1960)

La mancanza ed il corpo: riflessioni

Ha ragione Lacan. L’amore, per essere tale, è mancanza. Non può essere possesso, ma è essenza. Richiede la mancanza, quindi desiderio, perché se così non fosse, una volta raggiunto, non interesserebbe a nessuno.

Il “Filo Nascosto” è sicuramente un film sullo sviluppo di una relazione proiettata alla ricerca di un equilibrio tra due essenze antitetiche che si incontrano. Ma non solo.

Da un lato Reynolds Woodcook, un inenarrabile Daniel Day Lewis, pubblicamente riconosciuto nell’Inghilterra degli anni ‘50 quale maniacale e raffinatissimo disegnatore e creatore di abiti di altissima classe; dall’altro, Alma, una semplice cameriera, la quale, per caso, durante una colazione mattutina, conosce il genio, la sua innata classe, e ne resta ammaliata, inebriata, fino a divenire simultaneamente “oggetto” quale modella e “soggetto”, che indossa con passione le elaborazioni creative del suo mentore. E se ne innamora.

Alma, con pochissime e misurate parole, inizia a convivere con l’imponente personalità di Reynolds, e la sua quotidianità; inizia così a subirne anche le sue manie perfezionistiche che ricercano nel dettaglio e nell’eccessiva concentrazione gli strumenti indispensabili per la sua celebrata attività.
Alma percepisce, tuttavia, che dietro l’Altro c’è una personalità diversa da quella che appare. Una interiorità ancora fortemente condizionata da un passato in cui predomina il lutto per la perdita della madre, probabilmente non ancora correttamente elaborato, e dal consequenziale presente dominato dall’ossessione per il suo lavoro che ingabbia, all’interno della casa-atelier, lo staff di collaboratrici e la sorella. Relegando così, le varie donne che ha conosciuto nel passato, ed utilizzato come modelle, a desideri oramai conseguiti e dimenticati.

Disegnare e creare un abito non solo comporta la trasformazione di un tessuto in un opera d’arte: ma anche la sublimazione di un corpo per il tempo in cui viene indossato. 
Il corpo.

A questo deve aver pensato Alma nel momento in cui comprende che la convivenza rischia di finire anch’essa in un desiderio raggiunto. Così prende una decisione per misurare quanto un evento estraneo ed improvviso che agisca sul corpo di Reynolds, fino ad allora entità, distinta e separata, schiava della sua personalità, possa incidere nella loro relazione. E la “scelta” di provocare un fortissimo malore a Reynolds, attraverso un escamotage gastronomico, sortisce i suoi effetti. Così il corpo, da oggetto necessario per l’estrinsecazione del genio creativo, diviene lo strumento con cui Alma cerca di mantenere integra la sua mancanza, il suo desiderio.

Quale conseguenza ha il malore? Reynolds si accorge che qualcosa, di cui non riesce a comprenderne la causa, lo rende debole, intacca la sua solidità e freddezza decisionale. E, nel contempo, forse per la prima volta nella sua esistenza dopo la morte della madre, si rende conto che anche Lui può essere oggetto di quella mancanza lacaniana, di quel desiderio, quindi quell’amore, visto fino a quel momento in una prospettiva solamente egoistica.

Il malore che ha agito sul “corpo” bypassando la personalità ha carattere transitorio, e finiti i suoi effetti si ritorna allo stato iniziale. Ed anche a maggiori tensioni.

Ed ecco il colpo di genio di Anderson. Alma vuole reiterare l’evento che ha avvicinato a sé Reynolds, ma a questo punto il parziale avvelenamento diviene “condiviso”. Ed in una scena bellissima, secondo me la migliore, attraverso l’arguto sguardo sotto gli occhiali, lo stilista comprende non solo la causa del malore precedente, ma anche le analoghe imminenti intenzioni della sua compagna: consapevole di ciò che lo sta aspettando, mangerà un boccone, piccolo quanto basti per ritornare a riprendersi, attraverso il dolore, la sua umanità, e restituire il desiderio a chi ha offerto la sua “mancanza”.