Vedi, è come se partecipassi a un gioco con delle regole che per me non hanno senso: perché le ha fatte della gente sbagliata. No, anzi: non le fa nessuno. Sembra che si facciano da sé stesse”.

Il Laureato, Mike Nichols, 1967, tratto dall’omonimo romanzo di Charles Webb del 1963. 

In queste poche righe giace come una bella addormentata nel bosco il significato profondo dell’intera opera.

Si, perché a regnare sovrani sono gli anni ’60. Gli anni della rivoluzione, della libertà, dell’emancipazione, della provocazione e del rifiuto delle regole così imposte, come regali preconfezionati non richiesti che bramano un’accettazione forzata che inevitabilmente si finirà per odiare. 

Il Laureato è figlio di un’età che porta spudoratamente le vesti di una Vergine, una monaca che deve nascondere la sua vera indole sotto un manto bianco di impermeabile purezza mentre sotto quel velo, la sua anima celata sta urlando ad un esercito di sorde convenzioni sociali che il momento è arrivato. Il momento di svelare tutto quello che per troppo tempo è stato distorto e mostrare letteralmente il proprio corpo, spingerlo a vivere, a fare esperienza al di fuori di regole imposte che non gli appartengono più. Come non appartengono di fatto ad un’epoca che vede nella provocazione la gioia eterna della liberazione. 

Il Laureato presenta la ribellione di una generazione che ha compreso di avere una voce, rendendosi consapevoli del suono di quella voce. Ma è anche la celebrazione della noia in tutte le sue caratteristiche. La noia del giovane che vede già esaurite tutte le esperienze di vita in quello che non ha scelto personalmente. La noia di chiudere un capitolo come quello universitario e avvertire le ginocchia cedere sotto il peso di una società che pensa di avere creato un altro modello di fabbrica, pronto per essere incastrato come tassello mancante di una catena alimentare che finge di nutrire mentre rende schiavi. 

Contemporaneamente assistiamo alla noia di una donna che di quella catena alimentare è già parte da tempo e che in un estremo tentativo di ribellione sfila la calza del pudore per nutrirsi a sua volta di una giovinezza che prende forma in una seduzione intrigante, vorace desiderio che sappia cancellare quello che è già scritto da tempo: Conformarsi. Obbedire. Rispettare il ruolo scelto dal sistema. 

Certo, come spesso accade in presenza di oppressione estrema delle proprie necessità, anche in questo caso la forza vitale lasciata sciogliere come un cioccolatino al sole può dare alla testa. Il picco glicemico, per così dire, è sempre in agguato. E se non si ha familiarità con questa sensazione, il rischio è che diventi una droga, qualcosa a cui non vogliamo e non possiamo più rinunciare. Perché ne vogliamo sempre di più. Perché assaggiamo come potremmo essere. E come abbiamo evitato di sentirci. 

C’è un altro aspetto però di cui tenere conto e su cui vale la pena di soffermarsi.

Cosa spinge una donna ad innamorarsi e nel caso della pellicola a sedurre un ragazzo tanto più giovane di lei? E allo stesso tempo, cosa porta un ragazzo ad avvicinarsi ad una donna molto più matura di lui?

Ci sono infiniti esempi anche nel mondo contemporaneo di relazioni in cui la donna è molto più matura dell’uomo. 

Nel caso della donna, a differenza di quello che si potrebbe pensare, non è un senso materno a farla da padrone. La donna non viene attratta dal ragazzo per un senso di protezione in cui rivede il figlio che ormai ha lasciato il nido. Al contrario, la donna proietta la sua stessa giovinezza. Spesso un momento di vita di cui si è sentita derubata perché ligia alle responsabilità imposte troppo presto da un sistema infendibile. La donna sente la leggerezza degli anni del ragazzo più giovane, scrollandosi di dosso responsabilità e regole, lasciando quella parte vitale, energica, provocante e seducente abbattere la diga del cosiddetto buon costume.   

Per quanto concerne il ragazzo invece l’attrazione nasce dall’esatto contrario. Se da un lato è spinto da un desiderio di indipendenza dalla famiglia di origine, dall’altra la donna più grande è un porto sicuro. Impersona sicurezza ma soprattutto quella donna, per quel ragazzo, rappresenterà una sorta di iniziazione. Un passaggio dalla vita del ragazzino a quella dell’adulto. Passaggio segnato dal sesso. Il sesso con una donna più grande autorizza inconsciamente il giovane a sentirsi uomo. Qualcosa dentro di sé cambia inevitabilmente. Inizialmente anche la fiducia in sé stesso subisce un’impennata. In più, molto semplicemente: impara. Impara a muoversi, conosce il corpo di una donna che sa guidarlo e come una maestra d’orchestra lo porta alla vibrazione delle giuste corde. E nel farlo dona al ragazzo una certa tranquillità. La donna non cerca la performance, non si trova più in una fase della vita in cui il sesso stesso è idealizzato. C’è un solo momento: il presente della trasgressione, del proibito ma allo stesso tempo il presente del desiderio, di una transizione più o meno obbligata. 

Il giovane guarda alla donna come una creatura più paziente, meno aggressiva delle sue coetanee. Dinamica comprensibile se consideriamo che generalmente una donna non è più spinta dalla smania di dimostrare la sua capacità seduttiva. L’età le ha già mostrato i suoi lati migliori e sono quelli che la donna va riscoprendo nella relazione con una ragazzo più giovane. Non scopre, riscopre. 

Lo stare in relazione subisce una variazione importante: la donna indipendente e risoluta (come nel caso di Ms Robinson nel film), è perfettamente capace di mantenere un doppio. Così come egregiamente mostrato nella pellicola, Ms Robinson gestisce con semplicità la sua doppia relazione. Da una parte il marito. Dall’altra il proibito. Segnato da troppi anni di differenza certo, ma anche da un adulterio. Un “peccato” che la società dell’eopca si portava nella tomba se siginificava dover salvare le apparenze.

Ma Ms Robinson attutisce e sferra i colpi come una campionessa mondiale di scherma tanto da suscitare una sensazione di invidia nello spettatore. Forse per la libertà dimostrata, forse perché coscienti del fatto che superati perbenismi sfocati, ci vuole coraggio ad essere “solo” quello che si è. 

Del resto, a quanti di noi è capitato, almeno una volta nella vita, di violare la cosiddetta morale umana o quantomeno di sentire il desiderio di farlo?