Il Primo Giorno della Mia Vita è il recente film, attualmente presente nelle sale cinematografiche italiane, del regista romano Paolo Genovese e tratto dall’omonimo romanzo uscito nel 2018. 

Girato in una Roma deserta a causa della pandemia, il film narra la sosta in un immaginario limbo ad un passo dalla fine, di quattro persone: Arianna, una poliziotta che ha perso sua figlia, Emilia, una ex ginnasta finita su una sedia a rotelle, Daniele, un bambino diventato una star di YouTube su incitamento dei genitori e Napoleone, un motivatore in forte sofferenza psicologica. I quattro sono guidati da un misterioso uomo, a cavallo tra Caronte e Virgilio, interpretato dal sempre sublime Toni Servillo, che ha l’arduo compito di ribaltare il loro punto di vista sull’esistenza nell’arco di una settimana.

Jung affermava che essere individui semplici è un’impresa rara. Conduciamo la nostra quotidianità lavorando sodo, talvolta ispirando gli altri, e spesso ci sentiamo insoddisfatti di noi stessi o di ciò che ci circonda. Affrontare la demoralizzazione durante la settimana a disposizione per queste quattro preziose anime, rende la sosta in una linea temporale alternativa un momento particolarmente adatto per abbracciare ciò che rende l’essere umano davvero unico e speciale: la capacità di connettersi l’uno con l’altro.

Napoleone, il personaggio che sicuramente rimane più impresso, mostra fin da subito una innata solidarietà verso le persone smarrite attraverso la sua incapacità di sentirsi sufficientemente adeguato in ogni ambito. Il paradosso che manifesta l’umana quotidianità. Questa condizione di non sentirsi mai abbastanza, infatti, è un sentire sempre più comune in una società sempre più veloce, sempre più liquida, che spinge con prepotenza al confronto sociale.

Il film stimola inesorabilmente l’autoriflessione su tematiche quali il suicidio, la capacità umana di resilienza e il sentimento di gratitudine. Quest’ultimo è probabilmente uno dei primi valori trasmessi dalla nostra famiglia di origine e che ci ricorda quanto dovremmo essere sempre grati per tutto ciò che abbiamo senza ricercare necessariamente sempre altro. Si tratta di accontentarsi? Non proprio. Piuttosto, si tratta di vedere uno spazio da riempire e non un vuoto che indica l’assenza di qualcosa.

La gratitudine deriva da un comportamento antico, evolutivo, in cui i primi umani si aiutavano a vicenda a trovare cibo, riparo o altre risorse per la sopravvivenza. Quando qualcuno aiutava un altro, il ricevente sperimentava un profondo senso di riconoscimento e, successivamente, avvertiva il desiderio di ripagare il favore. Fu così che si formarono i primi veri legami tra le persone, che hanno spinto a creare nuclei stabili, aumentando le possibilità di sopravvivenza di tutti.

Perché di sopravvivenza si tratta, oggi più che mai: il sentimento di riconoscenza compensa i sentimenti di invidia, narcisismo, confronto sociale, cinismo e materialismo. Tutti sentimenti esacerbati dalla cultura moderna e dall’avvento imponente dei social media.

A mio avviso, ciò che colpisce del film è proprio il legame di reciproco aiuto che s’instaura tra i personaggi e che innesca un circuito di feedback positivo. L’affetto, così come l’amore, se sinceramente sperimentato, non viene mai disperso nel vuoto ma circola con una forza indicibile fino ad attuare una trasformazione, un cambiamento interiore.

Avere modo di rallentare i nostri ritmi, vivendo anche un po’ del nostro tempo soggettivo condividendolo con gli altri, può condurci a rivalutare ciò che ci circonda e a vedere finalmente uno spazio da colmare anziché un vuoto da soffrire.