ANTONIUS, LA MORTE ED IL TERZO GIOCATORE
Il tema del silenzio di Dio, della sua totale assenza di fronte alla contingenza dolorosa della nostra esistenza, è sempre stata una costante di parte della filmografia di Ingmar Bergman, tanto da dedicargli una intera trilogia dal 1961 al 1963. Ma la trilogia aveva comunque ad oggetto storie umane, reali, di persone comuni che, attraverso le loro vicende, indagano il senso della vita attraverso la più essenziale delle domande: esiste Dio?
E questa domanda aleggia su tutta la celeberrima opera del 1957 del regista svedese, “Il settimo Sigillo” pur inserendosi in un contesto completamente metaforico, non immanente.
Perché sono certamente metaforici, simbolici, tutti i segmenti di un racconto che vede quale protagonista il nobile cavaliere Antonius Block, tornato dopo 10 anni dalle crociate in Terra Santa nella sua patria svedese, dove la peste ed il relativo furore espiatorio proprio della religione del tempo rappresentano il catalizzatore di un terrore umano che può solo tentare di ripiegare passivamente nella fede la propria disperazione terrena.
Ma per Antonius ciò non è sufficiente. L’inaspettata orda di miseria e desolazione, gli impongono quella meditazione sull’esistenza di Dio che lo segnerà per tutto il resto del film.
Ecco perché, e non potrebbe essere diversamente, la partita a scacchi con la Morte che lo viene a prendere contempla, quale terzo giocatore, la presenza pressante di una non-presenza: Dio ed il suo silenzio
Antonius si trova pertanto di fronte a due fattori angoscianti: l’inevitabilità della fine della vita umana, unica sua certezza, rappresentata da una figura, la Morte che assume paradossalmente sembianze umane, insieme al silenzio dell’unica Entità che dovrebbe sconfiggere la Morte stessa, e che non appare.
Vita, Morte, ed il Dubbio sulla rinascita della vita stessa, insieme, nello stesso momento.
Quali effetti??
La Vita vuole resistere, procrastinare il suo termine tombale. “Sono pronto nello spirito, non nel corpo” dice coerentemente al suo vissuto Antonius alla Morte che gli chiede di seguirlo: ecco perché l’idea di una partita a scacchi, di un gioco che trova proprio nella riflessione il nerbo della sua natura, ne rappresenta il più logico strumento in quella ricerca della presenza di Dio che il nostro crociato vuole portare a termine.
La Morte, in quanto tale, quale entità atemporale, trascendentale, immanente nella vita terrena, può intervenire in qualunque ed in nessun momento, anche se qui un limite se lo è posto: una partita a scacchi.
Ma la stessa Morte ha qui un alleato inatteso creato, plasmato dal silenzio di Dio: il dubbio.
Antonius, nella vacillazione della sua fede, sopraffatto dall’incertezza del suo Credo, rappresenta, senza rendersene conto, il miglior alleato della morte.
E allora siamo di fronte ad una corsa a due contro il tempo: tra la Morte, che ha rinunciato alla sua atemporalità nel momento che ha sfidato a scacchi l’uomo, e la rinascita della fede.
La Morte deve proprio evitare che quel dubbio possa tramutarsi nel suo peggior nemico: la Fede. Cioè l’unica entità che non ha paura della Morte stessa.
Antonius perderà la partita a scacchi e con essa la propria vita. Ma nel film sarà lo stesso regista ad indicare allo spettatore la via della Fede.
Il quadro esteticamente sublime della carovana in un verde prato illuminato dal sole, formato dalla compagnia del dolcissimo saltimbanco Jof, con la sua naturale propensione a perdersi in dolci fantasie, della bellissima e paradisiaca Mia, e del loro gioissimo piccolo Mikael, delle fragole appena colte ed offerte ad Antonius e agli altri suoi amici viandanti, del latte appena munto, sono la rappresentazione fisica, materiale e simultaneamente estasiante della presenza di Dio sulla nostra terra.
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