Imaculat (Romania, 2021). Regia: Monica Stam, George Chiper-Lillemark. Interpreti principali: Ana Dumitrascu, Vasile Pavel, Cezar Grumarescu, Ilona Brezoianu
Il film ha vinto il Leone del futuro – Premio Venezia opera prima “Luigi De Laurentiis”
Istituzione totale come set, rapporti di forza come motore dello sviluppo narrativo, ribaltamento di ruoli come esito di un percorso di crescita. Le premesse per un film interessante, anche se claustrofobico, ci sono tutte.
Daria viene ricoverata per qualche settimana in un centro di disintossicazione. Ha due genitori che la amano e sono presenti, il suo scivolone è stato innamorarsi dell’uomo sbagliato che l’ha condotta sulla strada dell’eroina. Il suo sguardo è dimesso, i capelli scompigliati, il viso senza un filo di trucco: sembrerebbe la classica brava ragazza finita in un luogo che non le appartiene.
Inizia il suo percorso riabilitativo e la conoscenza con gli altri ricoverati, quasi tutti uomini. La avvicinano, la accarezzano, le chiedono affetto senza mai andare oltre. Cercando di instaurare un dialogo, ognuno con gli strumenti che ha a disposizione: a volte pedestri, altre ruffiani, ma sempre con il fine di catturare una piccola preda apparentemente indifesa. Daria resiste alle lusinghe più aggressive e gioca con le altre, come un gatto con tanti topolini.
Il cinema è forma e sostanza: da una parte soggetto e sceneggiatura, ritmo, inquadrature, recitativo, fotografia, costumi, scenografia. Dall’altro l’alchimia della forma trova compimento in un risultato che coinvolge lo spettatore: lo cattura, lo indispone, lo incuriosisce, lo ammalia, gli prende la pancia e gliela strizza, gli prende la mente e la fa viaggiare lontano, gli restituisce ricordi e pensieri che credeva sepolti, gli apre nuovi mondi e nuove domande.
In Imaculat abbiamo un solido mestiere, che se non arriva all’astrattismo di Dogville comunque preme l’acceleratore su una stilizzazione precisa e costante: colori chiari, inquadrature chiuse nel formato 4:3, primi e primissimi piani, camera ferma sui soggetti, niente carrellate o piani sequenza; il movimento sembra bandito. Ma la frattura tra intenzione e risultato ai nostri occhi è profonda: i personaggi risultano freddi, la forma prevale sulle parole, la dimensione fisica sulla storia personale, l’appiattimento delle inquadrature genera personaggi a una sola dimensione. Lo spostamento del potere dagli uni all’altra risulta così artificioso, una sorte di scivolamento programmato nascosto dietro un gioco che lo spettatore presto intuisce dove andrà a parare.

La protagonista è perfettamente in parte e gioca con lo stereotipo della gatta morta manipolando uomini che potrebbero schiacciarla in un attimo. Si muove con disinvoltura in una fossa di serpenti fatta di ormoni impazziti e infantilismi di ritorno, disegnando a lungo, con il suo viso di bambina, i contorni dello schermo. Ma un montaggio che enfatizza la lentezza delle scene e un taglio registico che privilegia una staticità esasperata rappresentano le colonne portanti di una vicenda in cui la cornice sovrasta la tela.
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