L’archetipo del viaggio

“Il mio intento era quello di raccontare un controcampo rispetto a quello che siamo abituati a vedere. Da anni vediamo barconi che arrivano, a volte li salvano, a volte no e ci si abitua a immaginare queste persone come dei numeri. Volevo dare una forma visiva a quel viaggio che non siamo abituati a vedere o immaginare” (M. Garrone)

“IO CAPITANO”, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, ci immerge nell’eccezionale viaggio di Seydou e Moussa, due sedicenni che abbandonano Dakar con il sogno di varcare i confini e raggiungere l’Europa. Un’epica odissea che cela un percorso di maturazione, in cui si affrontano le sfide disperate del deserto, le atrocità carcerarie in Libia e la spietatezza del mare, offrendo uno sguardo accurato sulla condizione umana che non può non fare riflettere. Per questo, il film di Matteo Garrone è un’opera imprescindibile, un dono in grado di toccare corde emotive profonde.

Il regista si distingue per la sua straordinaria abilità nel narrare storie letteralmente attraverso gli occhi dei suoi personaggi. Questi ultimi sono guidati con maestria, dimostrando che non è sempre necessario ingaggiare volti noti, ma basterebbero una sceneggiatura ben scritta che riesca ad arrivare al cuore di tutti, una forma visiva elegante e attori che abbiano un mondo dentro da poter esternare. Conoscere il cinema e saperlo fare. Menzione d’onore va attribuita al fatto che l’opera viene presentata in lingua originale permettendo di cogliere ogni sfumatura emotiva nelle voci dei personaggi.

Il protagonista, Seydou, è una giovane anima in evoluzione che condivide il quotidiano con sua madre e i fratelli a Dakar, nutrendo il sogno di un futuro in Europa come artista, accanto a suo cugino Moussa, senza dimenticare la necessità di aiutare la famiglia. L’immagine che emerge dalla quotidianità in questa città è intrisa di musica, danze e colori, diffondendo nell’aria un sentore palpabile di fraternità e solidarietà, elementi che costituiscono il cuore pulsante della narrazione sottesa al racconto.

Nonostante gli avvertimenti materni, la preoccupazione e la paura nei confronti dei pericoli intrinseci al loro cammino, i due cugini decidono coraggiosamente di intraprendere questa straordinaria avventura con il consenso degli antenati attraverso una figura mediatrice. La loro prima tappa li conduce nel deserto del Sahara, un ambiente dove, fin da subito, si percepisce un profondo distacco rispetto al senso di comunità che avevano respirato a Dakar, come se il cordone ombelicale fosse stato improvvisamente reciso.

Seydou rimane letteralmente attonito di fronte alla cruda mancanza di umanità, manifestatasi nelle vicende delle persone abbandonate ad una tragica sorte. Il deserto assume il suo ruolo simbolico di viaggio, facendo emergere anche visioni e allucinazioni nella mente del protagonista. Egli diventa testimone della disperazione umana, cercando di salvare una donna che è stata lasciata indietro, un gesto che riflette sia il suo rispetto verso un’altra vita umana sia il suo tormento interiore nell’avere abbandonato la propria madre. Le inquadrature del film catturano con grazia le sfumature della luce diurna e notturna nel paesaggio desertico, dove le dune, apparentemente gentili e accoglienti, celano un’inesorabile insidia per chiunque si fermi.

In questo scenario arido e spietato, i due cugini si trovano di fronte a un drammatico punto di svolta: vengono separati dalle forze di polizia libiche. Moussa viene condotto in prigione, mentre Seydou può continuare il suo viaggio. Tuttavia, una volta giunto nella capitale libica, anche lui viene ingiustamente portato in un centro di detenzione, situato in mezzo al nulla. In questo momento di profonda sofferenza fisica e psicologica, il protagonista si aggrappa prima a un conforto immaginario, visualizzando un atto di perdono nei confronti della madre attraverso la figura di un angelo. Un espediente, quello del mondo onirico, da sempre tanto caro al regista. Successivamente, nella dimensione reale, trova sollievo e speranza in una figura paterna, anch’essa prigioniera, che lo estrae dall’abisso di un esito drammatico. Entrambi troveranno un’opportunità di salvezza come muratori al servizio di un ricco signore, il quale, alla fine, li lascerà liberi.

Giunto a Tripoli, Seydou si imbatte con determinazione alla ricerca del cugino. Lo troverà ferito e lo porterà con sé sulla nave assumendo il ruolo di guida, nonostante la sua giovane età e la mancanza di competenze in nuoto e navigazione. Non sarà più il coronamento di un sogno a guidarlo, ma la profonda responsabilità di preservare la vita di tutti a bordo che lo condurrà di fronte alla nostra terra col commovente grido: “Io Capitano.”