Io la conoscevo bene (Italia, 1965). Regia: Antonio Pietrangeli. Interpreti principali: Stefania Sandrelli, Mario Adorf, Jean-Claude Brialy, Joachim Fuchsberger, Nino Manfredi, Enrico Maria Salerno, Ugo Tognazzi, Franco Fabrizi, Turi Ferro, Franco Nero

Per lei ieri e domani non esistono. Non vive neanche giorno per giorno perché già questo la costringerebbe a programmi troppo complicati, perciò vive minuto per minuto.

Prendere il sole, sentire i dischi e ballare sono le sue uniche attività.

Per il resto è volubile, incostante, ha sempre bisogno d’incontri nuovi e brevi.

Non importa con chi, con se stessa, mai.

“Volevo essere Marlon Brando (ma soprattutto Gigi Baggini)” è il titolo dell’autobiografia di Alessandro Haber. Gigi Baggini è un guitto che cerca spazio nel mondo dello spettacolo romano. Ha bisogno di lavorare e per compiacere un produttore importante, durante una festa con gente di spettacolo, si trova costretto a mimare la partenza di un treno, sempre più veloce, fino a rischiare un infarto, tra le risate dei presenti.

La luce di una macchina da presa spiega meglio di un trattato quanta volgarità, prevaricazione, ostentazione di potere possano circolare nell’ambiente del cinema. Un dietro le quinte amaro, grottesco, che rivela come sia difficile sopravvivere e avere successo in un mondo che brucia speranze e sentimenti di tanti in cambio di denaro e visibilità per pochi.

Oltre alla scena di Baggini, per la quale Tognazzi vinse il Nastro d’argento, sono molte altre le immagini con cui il film tratteggia un ambiente in cui i cui divi guidano auto bellissime, indossano abiti di gran moda e si accompagnano con donne inarrivabili. Ma dietro le quinte c’è un mondo spietato, che frantuma le speranze dei più fragili. Adriana Astarelli è tra questi: arriva nella capitale dalla provincia toscana ad appena vent’anni: cambia lavori e uomini con leggerezza, quasi non avesse un progetto di vita, un’idea di futuro da perseguire. E’ una preda facile e innocua: molti ne approfittano, alcuni ne intuiscono la fragilità, nessuno si sofferma davvero ad accogliere il vuoto che si porta appresso. Non ha la lucida determinazione di chi vuole arrivare a tutti i costi. Semplicemente cerca un po’ di benessere sfruttando con consapevole superficialità la bellezza dei suoi anni. Spende subito i pochi soldi che guadagna, crede al miraggio di una carriera nel mondo del cinema e si adatta senza problemi a piccoli ruoli.

Adriana non capisce e non vuole capire. Probabilmente non ne ha gli strumenti, ma nemmeno cerca di procurarseli. Si lascia vivere in una spirale che le offre qualche soddisfazione e qualche delusione, ma senza mai abbattersi veramente. Non è in guerra, anzi, vive una città in pieno boom economico: ma la sua prospettiva quotidiana è quella di arrivare a sera senza farsi male, rastrellando ciò che può.

La narrazione è spezzettata: brevi flashback raccontano della famiglia lasciata al paese e di una gravidanza interrotta. Si rompono alcuni vetri, le immagini si frantumano e non vengono ricomposte. La stessa immagine di Adriana, alla fine del film, viene rimandata da tre diversi specchi.

Come se fosse impossibile ricondurre ad unità una vita destinata alla frammentazione esistenziale, al giorno per giorno, al consumo. Quello che Pasolini aveva iniziato a raccontare in quegli anni viene incarnato con superficialità da questa provincialotta incapace di qualsiasi riscatto. Lo scrittore, uno dei personaggi maschili del film, la descrive bene nella frase riportata all’inizio.

Prima di scrivere il soggetto, insieme a Ruggero Maccari ed Ettore Scola, Antonio Pietrangeli compì una sorta di indagine tra le attrici che arrivavano a Roma per entrare nel mondo del cinema e le trovò tutte simili tra di loro: Adriana è il frutto di quegli incontri. La musica, ricorrente in tutto il film, è la colonna sonora di quelle esistenze. Lo sguardo in macchina che il regista chiede alla sua protagonista non è nuovo. Lo introdusse Bergman, rompendo la quarta parete, con Harriet Andersson in Monica e il desiderio.

Lo ripeté Truffaut facendo guardare in macchina Antoine Doinel alla fine de I quattrocento colpi e Godard con i protagonisti di Fino all’ultimo respiro. Ma Adriana non cerca complicità, non chiede aiuto allo spettatore né intende imporsi come una persona nuova. Gli versa addosso, insieme alle lacrime che sciolgono il trucco, un’amarezza che sale impetuosa e toglie il respiro. Una consapevolezza improvvisa che, dopo una vicenda densa di frasi vuote e canzoni di moda, non ha più bisogno di parole.