Istmo (Italia, 2020). Regia: Carlo Fenizi. Interpreti: Michele Venitucci, Caterina Shulha, Timothy Martin, Antonia San Juan.
Orlando è un quarantenne che spende le sue giornate in un appartamento pieno di separè a formare piccoli ambienti distinti e curati. Non cucina ma si fa recapitare a domicilio pranzi vegetariani. Non esce ma posta la propria immagine sulle strade di altri paesi del mondo, nudo e in postura raggruppata. Riduce al minimo le interazioni con le altre persone (il coinquilino, la rider che gli consegna il cibo, la fisioterapista che lo cura a domicilio) ma per lavoro conosce le storie di altri, dal momento che traduce per un festival i dialoghi di film latino-americani.
Orlando vive chiuso nel suo mondo asettico e autosufficiente, senza bisogno di agenti esterni normativi o sanitari a costringerlo in casa. E tutto ciò gli basta, come spiega con veemenza al suo coinquilino Amed, rivendicando il fatto di essere un influencer di successo con moltissimi follower, contrariamente ad Amed al quale la vita sembra non offrire nulla; e poi tra le sue quattro mura ha già tutto ciò che gli serve. Il fuori potrebbe essere pericoloso, portare a scompensi, cadute, fratture. La vita ferma è ciò che ha scelto. Non ne sappiamo il motivo ma possiamo immaginare un dolore che si porta appresso in silenzio, cicatrizzato attraverso la sua rimozione. La cura del dettaglio formale (il corpo, il cibo, le traduzioni, l’arredamento) è ossessiva ma in grado di garantirgli il controllo. Sono invece le persone che gli piombano nell’appartamento a scompaginare l’equilibrio perfetto che si è costruito come hikikomori di mezza età: gli parlano, fanno domande, lo vedono come persona e non come icona da social network, e così facendo si aspettano che finalmente riesca a sporgersi dal confine invisibile che divide il dentro dal fuori.
Marina, che gli consegna i pasti, si interessa a lui e prova ad avvicinarlo. Ma la danza del corteggiamento è complicata e per viverla appieno occorrerebbe uscire dalla rappresentazione ed entrare in se stessi. In una scena emblematica lui si sporge dal proprio balcone mentre lei gli si avvicina salendo qualche gradino di una scala a pioli appoggiata al balcone dell’appartamento di sotto. Si parlano così, vicini eppure lontani, con la ringhiera che separa le loro parole, i significati che rimbalzano l’uno contro l’altro, in una schermaglia da cui Orlando probabilmente vorrebbe fuggire. Così come la vita agli occhi di se stesso, anche la sua immagine a quelli di Marina è frammentata. La loro separazione inizierà a cedere davanti a un’eclisse, osservata insieme con le lenti oscurate, sdraiati per terra su una coperta di mille colori.
E il mondo perfetto di Orlando continuerà la sua frana nell’ultima videochiamata con Antonia, la responsabile del festival che gli commissiona le traduzioni. La loro è una collaborazione che dura da anni, un rapporto formale di fiducia reciproca, ma con il festival ormai alle porte Orlando spiega di essere in ritardo nella consegna del lavoro, parlando di non meglio precisati problemi che ha dovuto affrontare. Antonia gli parla con calma, senza affanno, come Amed, come Marina, come gli interlocutori che provano a stabilire un contatto con lui, e gli ribadisce l’ammirazione per il suo lavoro, la perfezione formale, la cura del dettaglio. Ma ciò che dal suo lavoro non emerge è l’anima dei personaggi, quella che racconta la vita come è davvero e non come dovrebbe essere se tutto fosse perfetto. La modalità preferenziale di Orlando, l’attacco per riuscire a difendersi, adesso non funziona: rimane senza parole quando Antonia gli comunica che questa è l’ultima volta che lavorerà per il festival.
E’ l’ultimo frammento che cade, l’istmo che divide la sua vita da quella degli altri e lo spingerà ad aprire la porta e uscire finalmente sulla strada. Ho immaginato per tutto il tempo, forse complice il balcone luminoso, che Orlando vivesse a Roma. Invece la strada si apre su un lungolago, acqua che fluisce e su cui imparare a navigare accettando ogni cambio di vento.
Michele Venitucci, che insieme al regista ha scritto anche la sceneggiatura, è un protagonista represso, sempre pronto a esplodere ma apparentemente controllato. Esprime con naturalezza tutto il mondo che non può raccontare e lo fa per sottrazione, lasciando libero spazio all’immaginazione dello spettatore, senza didascalie o tappeti sonori. C’è lui e il suo bastarsi all’interno di un sistema che lentamente va in blocco. Il film è una kammerspiel impressionista, in cui il regista segue con abilità i movimenti dei protagonisti in uno spazio angusto. I dettagli sono funzionali all’interpretazione dello spettatore: se siamo pronti a farlo si aprono squarci impressionanti, se abbiamo gli stessi timori di Orlando ci limitiamo a seguire con interesse da entomologo la sua quotidianità autosufficiente. Una sorta di storia modulare, in cui la soggettività dello spettatore gioca un ruolo decisivo, scegliendo se, come e quando aprire, attraverso lo schermo, la sua porta sul mondo.
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